In Italia il termine insalata accomuna indistintamente tutti i vegetali a foglia da consumare crudi: non solo le lattughe, quindi, ma anche le cicorie, le indivie, i radicchi, il lollo, la rucola, la catalogna, il crescione, la misticanza e perfino gli spinaci. Che sia solo mancanza di fantasia o un segno di dislessia alimentare sintomatico di un futuro privo di scelte? Frammisti a insulsi mélanges di foglie, alcuni osti malfattori smaltiscono acquosi e coriacei pomidoro, cipolle stantie, sedani flaccidi, carote e rapanelli terrosi e muffi. E sotto le più bizantine denominazioni si assiste al trionfo di “insalate” gravide di mais transgenico, tonno-spazzatura, rivoltante surimi, ananas, uvetta, noci, carne in scatola, maionese-light e melmosi “dressing” rovesciati a mestolate o torchiati da bustine strappate coi denti… Mettiamo ordine! Commercialmente “insalata” è sinonimo di “lattuga” per cui al ristorante quando chiediamo “l’insalata” pretendiamo “la lattuga”. Diversa è la richiesta di “un’insalata” che sta a significare – per dirla con Plinio – qualsiasi verdura cruda di stagione. Le milleuna variabili (insalate crude, cotte, fantasia, vegetali, di mare o di terra) son solo cortesi concessioni alla insindacabile fantasia dell’oste, al rassegnato gusto del consumatore, alla moda del momento e a una diffusa demenza semantica. Il termine insalata, dal punto di vista gastronomico, è uno dei tanti derivati di “sale”, al pari di salame, salsiccia, salsa, salamoia, salmoriglio, salmì e salario. Nella Roma dei Cesari, lattuga, cicoria e indivia erano tenute in gran conto, tanto che ogni accampamento di legionari prevedeva uno o più orti affidati a militari specializzati nella coltivazione e raccolta di lattughe e insalate per la truppa; pare quasi di vederli, aitanti centurioni in elmo e corazza, chini nell’orto a cavare tenere ruchette con la punta della daga o del gladio! Verso il XV secolo si ritenne più idoneo sostituire il condimento caldo con un’emulsione di olio, aceto e, ovviamente, sale. A partire dal Rinascimento l’insalata venne consumata come “aperitivo”, all’inizio del pranzo, spesso rinvigorita da radici, senape e lardo. Più raffinate erano quelle che Jean Baptiste de La Quintinie, ossequioso e geniale giardiniere del Re Sole, preparava per Luigi XIV a Versailles. Da più parti si tende a indicare il ceppo originario della lattuga nella “indivia scarola selvatica” ritenuta una pianta-bussola poiché le sue foglie tendono a crescere sempre in direzione nord-sud. I paleo-botanici sostengono che la più antica lattuga coltivata sia la “romana”, già presente negli orti dell’antico Egitto e sulla mensa degli imperatori di Persia. Lì la conobbe Alessandro Magno che la introdusse in Grecia da dove si diffuse a tutto l’Impero. Assortire un’insalata mista e non mesta obbliga a tener conto della prima regola del gusto: l’armonia nasce dal contrasto. Le erbe e gli ortaggi possono essere di sapore acido (come nel caso dei pomodori e dell’acetosa), amaro (il radicchio, la scarola, le lattughe e le puntarelle), dolci (è il caso delle carote, delle patate o dei finocchi ma anche di alcuni peperoni dolci), piccanti (peperoncini, ravanelli, rafano, crescione), salate (prezzemolo, porri, sedano, cipolle ed erba cipollina). Una volta unite le verdure con la logica della contrapposizione delle sensazioni, bisogna riflettere sul condimento e sul suo impatto nella composizione appena creata. Scarola e carote o radicchio e patate, per esempio, richiedono solo un po’ di olio d’oliva extra vergine, il giusto sale e una presina di pepe dal mulinello. Origano o maggiorana non guastano sul pomidoro, un leggero profumo d’aglio e qualche foglia di basilico esaltano i peperoni e le cipolle. Si discute da secoli se l’aceto sia proprio indispensabile. Si può farne a meno se la tavolozza multicolore è composta di erbe molto amare “maritate” con elementi dolci, nel qual caso si può sostituire l’aceto con il limone che ha anche il pregio di “offendere” meno le vitamine. Nessuna deroga è ammessa sulla sequenza del condimento: prima l’aceto, poi il sale (che così si scioglie) e solo alla fine l’olio. Monsieur D’Albignac, uomo di grande intuito e di non minore capacità imprenditoriale, nell’800 girava per Londra a bordo di una carrozza con due inservienti e un baule di legno pregiato foderato in seta, colmo di aceti di ogni tipo, oli aromatizzati con spezie e frutti, caviale, tartufi, acciughe, rossi d’uovo, sugo di carne. Insomma, uno scrigno di aromi, condimenti, fragranze e intingoli che usava con movenze spettacolari per condire insalate nelle case londinesi più in vista. Ogni sua “prestazione” poteva costare anche l’equivalente di 500 euro di oggi! A un certo punto pensò addirittura di vendere copie commerciali dei suoi “scrigni” da condimento, completi di tutto e, ovviamente, a prezzi esorbitanti. Quando morì – agiato e benestante – i nobili londinesi lo piansero con sincero rammarico. Non si hanno notizie di suoi allievi o successori nella difficile e preziosa arte del condire. Almeno a giudicare da quello che si vede nei ristoranti.

 

Sergio G. Grasso