Mele, pere, ciliegie, pesche, albicocche, prugne, nespole e susine, sono tra le più note e diffuse frutta al mondo. Appartengono tutte alla stessa famiglia, quella delle rose, che si esprime al meglio nelle due zone temperate a cavallo della fascia equatoriale. Le rosacee rientrano dunque nella categoria dei “frutti temperati” (come l’uva, il kiwi, le fragole e altri frutti di bosco) e sono caratterizzate da una notevole rusticità botanica che permette loro di vegetare anche in climi estremamente rigidi. Al pari dei meloni, delle banane e dei pomidoro, mela e pera sono frutti “climaterici” cioè continuano la maturazione anche dopo il distacco dalla pianta grazie alla loro capacità di sintetizzare etilene, un ormone gassoso che promuove i processi d’invecchiamento cellulare del frutto. Conviene tener presente che gli altri frutti non-climaterici (quelli che smettono di maturare una volta raccolti dalla pianta, come l’arancia, il lampone, il limone, l’oliva, l’uva, il cetriolo e il peperone) tendono facilmente a sovrammaturare e a marcire se posti vicino a quelli climaterici. Il freddo tuttavia rallenta la produzione di etilene per cui è buona norma conservare la frutta climaterica in frigorifero. Il record di resistenza al freddo spetta sicuramente alle pere che in alcune varietà (Pera siberiana o Pyrus ussuriensis) riescono a maturare anche a temperature prossime ai 40° sotto zero mantenendo la polpa croccante. Le varietà di pere conosciute al mondo sono oltre 4000 con una notevole differenziazione di forma, grandezza, colore e sapore. La coltivazione intensiva riguarda un migliaio di queste varietà, sia per il consumo fresco che per la produzione di succhi e conserve inscatolate. Tuttavia il mercato mondiale è dominato per l’80% da 200 cultivar tra cui, in Europa, le William, le AbateFetel, le Conference, le Spinella, le Passacrassana, le Decana-delcomizio, le Kaiser, le Carmen, le Guyot, le Herman e le Santa Maria. La pera europea (Pyrus communis) è ritenuta originaria dell’Anatolia e deriverebbe da due varietà selvatiche (pyraster e nivalis) i cui semi sono spesso rinvenuti in caverne e ripari abitati in tempi preistorici. Le prime evidenze archeo-botaniche di coltivazione sono state rinvenute in Cina (dove l’albero è considerato simbolo di longevità e i suoi fiori sono associati alla fragilità femminile) e risalgono al 4500 a.C. mentre il primo documento scritto che cita le pere in ambito commerciale è una tavoletta d’argilla sumera del 2600 a.C. Il frutto sicuramente godeva di alta considerazione presso i Greci, al punto che Omero arrivò a definire la pera “un dono degli dei”. Sui mercati dell’antica Roma se ne potevano trovare più di 60 varietà diverse, molte delle quali citate nelle opere di Catone, Plinio e Columella. Esemplare l’incitamento di Virgilio a coltivarle negli orti patrizi: “Pianta i tuoi peri, o Dafne, così che i tuoi nipoti ne raccolgano i frutti…”. Con la caduta di Roma e le invasioni barbariche molte varietà scomparvero e altre inselvatichirono. Nell’alto Medioevo se ne trovano scarse tracce in letteratura botanica; alcuni testi inglesi del XI secolo riferiscono della varietà “ghiaia rosa” caratterizzata dalla presenza di fastidiosi granuli legnosi ma in genere attorno all’anno Mille l’albero del pero non godeva di grande favore, sia perché il suo legno marcisce facilmente e si spezza, sia per i vermi che ne amano il frutto, ma soprattutto perché le pere lasciate a loro stesse davano frutti poco succosi e molto duri, da ammorbidire con una lunga cottura e quindi economicamente svantaggiosi. Forse proprio a queste varietà si riferisce l’indicazione della Scuola Medica Salernitana (XII sec.) che sconsiglia l’uso delle pere nell’alimentazione dei malati in quanto generatrici di “melanconia”. A titolo di curiosità, nelle cronache medioevali viene spesso ricordata la “pera d’angoscia”, che non era un frutto ma un attrezzo usato come strumento di tortura per estorcere confessioni a streghe ed eretici. Con l’epoca dei Comuni si assiste in Italia al ritorno dei peri negli orti e nei “pomarii” dove vengono innestate e selezionate nuove varietà. Nel Rinascimento in Francia si potevano contare oltre 200 varietà diverse di pere che divennero 500 all’inizio del XVIII secolo. Il rinnovato fervore per le pere traspare anche dai nomi di alcune varietà settecentesche: la “Favorita”, la “Bon Crétien” la “Cuisse-madame”, la “Virgolosa”, la “Bergamotta” e la “Frangipane”. Nel XVIII e XIX secolo in Italia e Francia furono create oltre un migliaio di nuove varietà di pera dure o croccanti, polpose o sugose, dolcissime o leggermente acidule, burrose e fondenti. Alla stragrande maggioranza di queste furono dati nomi femminili come Belle Lucrative, Comtesse d’Angoulème, Duchessa d’Orléans, Marie-Louise, Madeleine… Quasi a ribadire che la pera è femminile e materna, rassicurante, profumata e… ricca di curve. E quando lo charme si trasformava in ingenua sfrontatezza comparivano nomi come “Pere Gnocche” e “Cosce di Monaca”. Fino all’ultimo dopoguerra d’inverno era facile imbattersi per strada in venditori ambulanti di “pere da passeggio”. Generalmente si trattava di gelatai che in attesa della stagione più propizia sbarcavano il lunario offrendo ai passanti pere sbucciate, ricoperte di caramello e infilzate in bastoncini di legno. Giravano per le feste rionali o nei mercati trasportando a tracolla un contenitore di rame che conteneva la frutta già cotta e il caramello mantenuti caldi da tizzoni di carbone che servivano anche come riscaldamento personale. Erano i “peracottari”, uomini generalmente di scarsa intraprendenza, senza arte né parte, che vivevano alla giornata, per niente impensieriti dal futuro. Un mestiere scomparso come molti altri ma il cui nome è rimasto a indicare persone incapaci e maldestre che si accontentano di galleggiare mediocremente e senza dignità. Un termine perfetto per definire la maggior parte dei politici di oggigiorno.