La lunga storia che accompagna il mangiare fin dall’antichità. Nel sito mesolitico di Shubayqa (nord-est della Giordania) una comunità di cacciatori-raccoglitori natufiani vissuta 14mila anni fa raccoglieva farro selvatico (Triticum boeoticum), orzo (Hordeum spontaneum) e avena (Avena sp.), macinava i grani con pietre di macinazione e martellamento e li setacciava fino ad ottenere una consistenza simile alle moderne farine. Nei pressi del focolare ventiquattro resti di impasti testimoniano che quattro millenni prima della “invenzione” dell’agricoltura, sulle coste orientali del Mediterraneo si produceva qualcosa che oggi chiameremmo “pane”. Pane di farina impastata con acqua, anche parzialmente lievitata ad opera delle spore di lievito naturalmente presenti sulla superficie dei cereali. Pane appiattito per essere cotto velocemente sulle braci o su pietre roventi; pane facile da trasportare e da conservare; pane creato per nutrire corpo e cervello. Quelle archeo-focacce (dal tardo latino “focaceus”, cotto al fuoco), furono certamente tra i più antichi alimenti elaborati dall’uomo. Se i resti di Shubayqa dividono ancora la comunità scientifica sulla tecnologia di elaborazione di quei pani, pochi dubbi riguardano la natura della farina macinata 30.000 anni fa e rinvenuta a Bilancino nel Mugello. Si trattava di amidi estratti non da cereali ma da varie radici palustri, tra cui la Tipha, detta anche “stiancia” o “mazza sorda”. Era una “farina” ricca di carboidrati complessi, da impastare con acqua e ridurre al minimo spessore per velocizzarne la cottura; un alimento durevole nel tempo, capace di garantire autonomia alimentare nei momenti critici. L’evoluzione di questi dischi schiacciati o sfogliati fu la trasformazione in supporto per altri ingredienti come erbe, carni, pesci e condimenti: non solo pani ma allo stesso tempo “stoviglie” e “pietanze”. Difficile non vederli come gli antenati della nostra pizza. In Letteratura prime “pizze” potrebbero essere quelle descritte da Virgilio nell’Eneide, quando Enea e il suo equipaggio giunsero nel Lazio e si sedettero sotto un albero dove “stesero sottili sfoglie di farina di grano come piatti per il loro pasto; vi misero sopra funghi ed erbe del bosco e se ne saziarono finché Ascanio [il figlio di Enea] esclamò: Guarda! Abbiamo persino mangiato i nostri piatti!”. Fuori dal suolo italico, nella Bibbia, focacce e schiacciate vengono fatte cuocere alla svelta, per onorare gli ospiti giunti improvvisamente: lo fa Sara per nutrire i tre messaggeri celesti e la vedova di Serepta accoglie il profeta Elia con una focaccia all’olio. E così via, fino agli odierni rituali ebraici del Hag ham-mazzot (Festa degli Azimi) che precedono la Pasqua israelita. Di “gallette” poi si sono sfamati per secoli eserciti e flotte e se ne trovano arcaiche sopravvivenze in quasi tutti i paesi del mondo: dalla burgutta degli eritrei al chapatti indiano, dalla indjera etiopica alla tortilla messicana, dalla yufka turca alla tagwella sahariana. Anche i cinesi rivendicano una propria paternità sulla pizza, evidenziando che già 3000 anni prima dell’era moderna in Cina si consumavano pani sottili grigliati ricoperti di erbe e carni tritate. Limitandoci all’ambito mediterraneo si sa che nell’antico Egitto il compleanno del Faraone era celebrato dal popolo consumando schiacciate di pane accompagnate con erbe aromatiche. Una tradizione piuttosto antica vuole che Dario il Grande (521-486 a.C.), re dei persiani, fosse solito mangiare delle sottili focacce di pane cotte sugli scudi e farcite di formaggio e datteri. Più o meno negli stessi anni Erodoto cita le sfogliate babilonesi condite con ortaggi mentre in Grecia si andava affermando l’uso di pani piatti (plakous) da guarnire con aglio, cipolla, olive e anche pesci minuti. Una curiosa assonanza accomuna una vasta area europea che comprende Greci, Bulgari e Macedoni, Albanesi, Serbo-Croati, Romeni, Ungheresi, Giudeo-Spagnoli e Turchi. Alcuni autori fanno derivare l’etimologia di “pizza” dal greco antico pēktos (impasto denso), altri da turco pide, modificatosi nell’arabo pitta, termine ancora presente in Calabria, Lucania, e Otrantino, con lo stesso significato di ‘focaccia’ A Napoli diviene pèttola e in Abruzzo pettêlê (sfoglia, pasta distesa dal matterello); in Valtellina pèta (pane di forma schiacciata); nelle Venezie e in Romagna pinza per torta di pane bassa. Assente in latino, in area italiana il nome “pizza” è attestato, nelle sue diverse varianti, solo nel Medio Evo: pizze appare nel “Codex Diplomaticus Cajetanus” del 997 e pizzas in due documenti abruzzesi del 1195 e del 1201. Petta e pettae appaiono invece ad Aquileia, nel 1249 e pettarum a Cividale del Friuli nel 1297, mentre pinza appare a Rimini nel 1256. Di pani di forma piatta, come la pizza, si possono trovare gli antenati in alcune preparazioni molto antiche come la focaccia di siligo ovvero il pane “condito” degli etruschi, da cui deriverebbe la coca della Catalogna, della zona di Valencia e delle Isole Baleari, l’odierna “pita” greca e perfino la piada romagnola.