Il trascorrere del tempo è indubbio che incida sugli alimenti i quali, una volta preparati, a prescindere dal sistema di conservazione, saranno soggetti a qualche successiva alterazione. Si usa il termine “shelf-life”, traducibile letteralmente come “vita da scaffale”, per indicare il periodo di conservazione in cui il prodotto mantiene le caratteristiche tali da poter essere commerciabile, ossia quell’intervallo di tempo in cui l’azienda produttrice garantisce il mantenimento di tutte le caratteristiche di sicurezza, salubrità e qualità organolettiche proprie di quell’alimento. Periodo che oggigiorno le esigenze di mercato e dei sistemi di commercializzazione, in particolare la grande distribuzione, richiedono si allunghi il più possibile con tempi di conservazione dilatati e dunque una “vita da scaffale” sempre maggiore. È compito degli operatori alimentari, dunque, mediante il rispetto delle normative e l’attivazione delle procedure di autocontrollo aziendale, studiare ed applicare le migliore tecniche al fine di assicurare ai clienti ed ai consumatori un prodotto salubre e di qualità. Qualità degli alimenti che, indifferentemente dalla metodologia di conservazione, deve essere il primo aspetto da curare e garantire mediante selezione delle materie prime, rigoroso controllo delle fasi di lavorazione, pulizia dei locali e delle attrezzature, controllo delle temperature di lavorazione e stoccaggio, nonché con adeguata formazione ed igiene del personale. Una volta assicurata tale cernita di qualità, l’operatore può optare per il sistema di confezionamento che, per le esigenze del proprio prodotto, risulta il più adeguato al fine di creare una “stabilizzazione” o cosiddetto “effetto barriera” in grado di proteggerlo da tutti i fattori esterni quali luce, ossigeno, umidità, determinanti sulla vita e durabilità dello stesso, e/o applicando le più idonee temperature al fine di incidere sui processi ossidativi, sull’evolversi dello sviluppo microbico e sulle ulteriori reazioni chimiche a cui i prodotti sono sottoposti. La scelta di un confezionamento “sottovuoto” permette di incidere direttamente sull’ossigeno, causa di fenomeni ossidativi e di sviluppo di microrganismi aerobi alteranti quali muffe, batteri, lieviti, eliminando dalle confezioni aria e dunque ossigeno mediante l’utilizzo di macchine confezionatrici con diretti benefici sia sulle qualità organolettiche dell’alimento che sul conseguente accrescimento della sua “shelf-life”. Tale metodologia, particolarmente diffusa, pur non potendo mai sopperire a caratteristiche qualitative o microbiologiche di partenza carenti dell’alimento, male si adatta a prodotti soffici, fragili o che verrebbero rovinati dalle pressioni del confezionamento mentre può assicurare i migliori risultati con alimenti deperibili refrigerati, prodotti contenenti grassi facilmente soggetti ad ossidazione lipidica e quelli sensibili alla crescita di muffe. Sempre facente parte del “sottovuoto” un’ulteriore evoluzione è rappresentata dalla cosiddetta tecnologia “skin” in grado di assicurare, mediante l’uso di specifici macchinari con materiali plastici molto resistenti e termoretraibili, una pellicola talmente aderente al prodotto tale da farla apparire come fosse una sua seconda pelle, appunto “skin”, migliorandone la presentazione e la durabilità.