L’unico tipo di immortalità che desidero per me sta nell’inventare una nuova salsa.
(Oscar Wilde)

Con il nome di “salse” si identificano varie preparazioni alimentari quasi sempre di sapore marcato, idonee ad arricchire – di gusto, colore, consistenza – una vivanda o a unire tra loro alimenti diversi influendo sulle loro peculiarità chimico-fisiche e sensoriali, possibilmente senza sovrastarle. La consistenza di una salsa può essere soffice e omogenea, talvolta oleosa oppure magra, liquida, gelatinosa o viscosa. Esistono tuttavia salse con textures granulari e slegate se non addirittura volutamente scomposte nei loro elementi di base. Il termine italiano “salsa” – come pure sauce in inglese e francese, Soße in tedesco, соус in russo – deriva dal latino salsus (salato) per ricordarci che il primo insaporitore aggiunto al cibo fu il sale. E proprio come il sale – ma anche lo zucchero, le spezie e i grassi – le salse rientrano nella categoria dei “condimenti”, dal latino còndere col significato di “comporre”. Le salse rappresentano un settore fondamentale, specialistico e articolato della Haute Cuisine, al punto da essere affidate alla figura del “saucier”, che nella brigata classica viene per importanza subito dopo lo chef e il sous-chef. Dal punto di vista della funzione gastronomica si possono dividere le salse in due categorie, la prima strutturale e la seconda accessoria. Le salse “strutturali” sono quelle che formano un tutt’uno omogeneo e inscindibile con gli ingredienti primari di un piatto – riso, pasta, carni o vegetali – assieme ai quali possono anche essere cotte o riscaldate. Appartengono a questa famiglia, i sughi (succhi), i fondi di cottura (emessi dal cibo) e quelli di cucina (le riduzioni di elementi nutritivi e aromatici), i battuti e i soffritti, i leganti come i roux e la béchamel. Oltre alla contemporanea funzione legante-insaporente, le salse strutturali si comportano anche come coadiuvanti di cottura e catalizzatori di reazioni che coinvolgono proteine, grassi e carboidrati. Si ritiene che le più antiche di queste “salse” risalgano alle prime società sedentarie la cui dieta era basata su cereali, radici o legumi a cui venivano aggiunti in cottura elementi vegetali o parti animali, soprattutto sangue, grasso, midollo, interiora o scampoli di carne.
Le salse accessorie hanno un ruolo squisitamente insaporente, vengono servite separatamente o comunque come aggiunta al piatto/cibo già pronto. Hanno un ruolo edonistico e sono concepite per allettare, dare piacere e appagamento organolettico anche con un tocco di preziosità. Tra queste rientrano molte “salse madri”, le emulsionate, il pesto, le marinate, i “dressing”, i chutneys e quasi tutte le salse-condimento come il ketchup, la senape, la maionese, la salsa di soia, la horseradish, la worchestershire. Le prime salse-condimento esistevano già in epoche remote; la più antica risale al 1750 a.C., è stata vergata in caratteri cuneiformi su una tavoletta d’argilla rinvenuta alla metà del XIX secolo, assieme ad altre ventimila, a Ninive in Mesopotamia. La complessa traduzione, effettuata nel 1985, ci informa che al re assiro (forse Zimri-Lim o più probabilmente Ashurbanipal) veniva servito dell’agnello stufato assieme a un intingolo a base di grasso di pecora, cipolla, scalogno di Persia, porro, aglio, sale e addensato con gallette di orzo sbriciolate. Preziose e forse troppo gustose, le salse erano appannaggio dei cuochi siracusani del V secolo a.C., mentre nella Roma di Augusto, oltre all’onnipresente garum e ai condimenta tramandatici da Apicio, furoreggiava una salsa confezionata con erbe tritate (basilico, cipollina, prezzemolo, timo, maggiorana) mescolate a semi di sedano, acciughe e noci, legata con datteri, miele, aceto, vino e olio d’oliva. Una volta caduta Roma e dimenticato Apicio, si dovette attendere Carlomagno e il Basso Medioevo prima di rimettere le salsiere sulle tavole aristocratiche. Ai tempi di Federico II e grazie alla contaminazione con la cucina arabo-siciliana, comparvero nuovi aggregati aromatici basati sul contrasto dolce e agro – non più miele e aceto ma zucchero e succo d’uva acerba -, ingentilito da un’ostentatoria pletora di spezie e tenuti assieme da due nuove “farine” esotiche in sostituzione del plebeo pane grattugiato e tostato: la farina di mandorle e il riso. Al tempo di Giotto, Dante e Boccaccio i sovrani europei assumevano nelle loro cucine personaggi estremamente competenti in materia, molti dei quali si erano formati sul Regimen Sanitatis Salernitanum ispirato alla teoria umorale di Ippocrate, per la quale alla materia (cibo) si riconoscevano quattro stati (caldo, freddo, umido, secco) a cui spettava di bilanciare i quattro temperamenti dell’uomo: melanconico, collerico, sanguigno e flemmatico. Ed ecco che nel 1305 il magister cochorum di papa Clemente V fu il grande medico ed alchimista Armand de Villeneuve, sostenitore della medicina umorale e paladino delle salse a base di brodi di carne ristretti; a lui si deve l’introduzione dell’uso di servire il bollito di carni secondo stagione: in estate con una salsa “secca e fredda” a base di verjus (succo di uva acerba) pampini di vite, succo di limone e di melograno, zucchero, aceto e acqua di rose, e in inverno con una poivrade “calda e umida” realizzata con un battuto di ruchetta, prezzemolo, zenzero, aglio, salvia, menta, pepe, cannella, garofano e mostarda (mustum ardens), legati con vino cotto, aceto e sugo grasso di carne. Nello stesso periodo alla corte parigina il capo delle cucine reali era un altro medico e speziale, tale Aldobrandino da Firenze che fu, tra l’altro, l’inventore di una particolare salsa verde per le anguille e di una salsa agrodolce per la cacciagione. A lui si deve l’istituzione della carica di “sovraintendente alla preparazione delle salse”. In questo ruolo si distinse su tutti il grande Guillaume Tirel (alias Taillevent), che nel suo “Viandier” gettò le basi della grande tradizione delle salse francesi. I suoi intingoli di maggior successo furono una salsa per pesci allo zafferano, una salsa verde per le carni e una “cameline” il cui ingrediente principale è la cannella. Tra le salse “bollite” (ovvero addensate con pane) di Taillevent primeggiavano due “poivrades”, una al pepe nero e una al pepe giallo, oltre a una serie di salse al latte, all’aglio, allo zenzero e al vino cotto. Col Rinascimento e i banchetti-spettacolo, la cucina e la tavola sentirono l’urgenza di rispondere a nuovi canoni di lusso, gusto e raffinatezza. Per quanto di pomodoro e patata (giunti in Europa come curiosità botanica dalle Americhe alla fine del ‘400) non si faccia menzione nei ricettari fino al ‘700, i cucinieri cinquecenteschi non si risparmiarono a inventare salse: alle noci, all’arancia, ai formaggi, all’anatra, al tartufo e altre con base d’uovo e finalmente legate con la farina anziché con pane. Si ritiene che alcune siano scaturite in occasione di matrimoni tra famiglie nobili, come nel caso della démi-glace e della salsa bruna o à l’espagnole che sarebbe giunta a Parigi con la principessa Anna figlia di Filippo III di Spagna al momento del suo matrimonio con Luigi XIII. Pare anche che una “salsa colla”, francesizzata poi in béchamelle, sia stata portata in Francia dai cuochi toscani e siciliani che seguirono Caterina de’ Medici quando andò sposa al futuro Enrico II Re di Francia. Leggenda o meno, è sempre in Francia che tra il XVII e il XVIII secolo si perfezionano sia le salse ricavate da riduzioni di vegetali sia quelle sostenute da roux o realizzate per emulsione con grassi. Spetterà poi ad Antonine Carême, nell’800, semplificarle, sgrassarle, “vellutarle”, liberarle da orpelli e ridondanze di spezie; ne codificò oltre duecento nella sua monumentale “L’Art de la Cuisine Française” stabilendo quella genealogia ancora valida tra salse madri, di base, complesse, derivate, cotte, crude, spagnole, tedesche ed emulsionate. Come dar torto a Curnonsky, il principe dei gastronomi francesi, quando definì le salse di Carême:” l’onore e il vanto della cucina francese; esse hanno contribuito ad assicurarle quella superiorità che nessuno discute”.