S’inventò una salsa, la salsa di Apicio, un intruglio dal gusto, si fa per dire, forte, di erbe aromatiche, spezie, aceto, pepe, vino, ruta, cipolla, pinoli, olio e interiora di pesce…, che rifilò, con poco rispetto per i posteri, nel suo piccolo, prezioso manuale di gastronomia, “De re coquinaria”. Il romano Apicio, se mai è esistito con questo nome, ritenuto comunque contemporaneo dell’imperatore Tiberio, celebre ghiottone, ha dedicato molto dello spazio del suo libretto alle salse, di pesce soprattutto. Un centinaio di paginette (in quelle stampate in una vecchia Garzanti le pagine a fianco sono nel latino originale), malgrado la fama dell’autore, considerate poco più di una curiosità letteraria. Ma perché tanta attenzione alle salse? E perché questa fama che ha attraversato i secoli e gli stomaci? Perché le ha diffuse Roma, dove il cibo non era soltanto nutrimento ma anche religione pagana, rito collettivo, irrinunciabile esibizione di casta quindi di potere sociale. La salsa di Apicio (preceduta nella storia della gastronomia imperiale soltanto dal ricercatissimo e costoso garum, anche questo ricavato soprattutto dalla macerazione delle interiora di alcuni pesci)) era buona, a quei tempi, per tutti i piatti di una cucina, ricca, riservata ma diffusa tra quanti se la potevano permettere. Che comunque arricchì conoscenze sia pure finalizzate al mangiare, di vegetali e di animali, fenicotteri, struzzi, gru, pappagalli e ghiri compresi, purché sempre con salsa di Apicio. Le sue sono ricette semplici, brevi, talvolta brevissime, allargate a un’ipotetica tavola dove c’è di tutto, pesci, molluschi, animali di terra e volatili, salumi, carni lesse, frattaglie. Una vera scienza, sotto salsa, ovviamente quella sua, di Apicio. Se qualcuno cerca di identificare per somiglianza di sapori o di ingredienti la salsa di Apicio a quelle dei nostri giorni fa un brutto affare. Nella gastronomia italiana anche quella che ha accettato contaminazioni storiche, di salse ce ne sono un’infinità. Non c’è testo che le ignori. Chi ha affrontato il tema non può ignorarle. Ho scelto, anche perché coinvolto da una sicura stima per l’autore, il librone di Zafferano, “Smemorandum”, scritto dal “nostro” Giorgio Nardelli (nella seconda edizione ha coinvolto anche il figlio Michele). Molto di più del solito ricettario di cui siamo pieni, ma una somma di informazioni sul mangiare dei nostri giorni. Ogni capitolo è un campione di saggezza e soprattutto di esperienze tra sistemi di cottura e ingredienti, menu e processi di lavoro, dagli antipasti alla frutta. Ricette semplici, nessuna presunzione didattica ormai purtroppo diffusa e perfino una serie di menu, indicativi ma già sperimentati. E tante salse, una trentina soltanto quelle con il pomodoro. Molte sono una vera sorpresa per come sono realizzate e poi proposte e in quale contesto. Non c’è cucina regionale che non le annoveri a conferma che la gastronomia italianana ha saputo andare anche oltre i tempi anche quelli antichissimi di Apicio, per esempio e delle sue salse. Questa non è una tardiva recensione ma soltanto un omaggio a chi sta ai fornelli con passione che al buon cibo sa dare il giusto valore anche storico.