Come in molte altre regioni, anche nelle campagne delle Marche veniva allevato il maiale, animale considerato una risorsa importante per la famiglia, sia per la preparazione delle carni (la pista, come ancora oggi viene chiamata in moltissime zone delle Marche), sia per il consumo. Si prestava particolare attenzione a non sprecare nulla: dopo aver consumato salami, salsicce secche, lonze (capocollo / coppa) e pancette, dopo aver atteso circa 18/20 mesi, si dava inizio al taglio del prosciutto. Inevitabilmente si arrivava vicini l’osso e quando non era più possibile affettare, l’osso veniva ripulito da ciò che rimaneva. Visto che spesso la fine del prosciutto coincideva con l’inizio della stagione dei fichi, si avevano contemporaneamente i fichi quasi pronti e il prosciutto quasi finito. A questo punto la “Vergara” (moglie del capofamiglia, la donna di casa deputata a sovraintendere a tutte le attività domestiche, ovvero tutte quelle attività che orbitavano nell’aia della casa colonica, dall’allevamento degli animali da cortile fino alla gestione della cucina) doveva fare in modo di non sprecare il poco prosciutto rimasto. I ritagli di prosciutto venivano fatti a pezzetti più piccoli, irrorati con vino bianco e lasciati riposare per una notte. Il giorno dopo, scolati dal poco vino rimasto, venivano passati velocemente in padella con qualche spicchio d’aglio. Poco prima di servirli si aggiungevano dei fichi non completamente maturi, tagliati a spicchi e, appena appassiti i fichi, il tutto veniva portato in tavola e accompagnato con del pane abbrustolito.