La carne dei pesci, che contiene una discreta quota di tessuto muscolare e scarso connettivo, è in genere più tenera e digeribile della carne degli animali terrestri e si presta maggiormente ad un consumo a crudo. Tagliata sottilmente e opportunamente insaporita con un buon olio extra vergine di oliva, succo di limone ed erbe aromatiche fresche, presenta un modesto valore calorico, apporta proteine e grassi di buona qualità, conservando l’originale contenuto in vitamine (tiamina, riboflavina, piridossina) e minerali (ferro, zolfo, sodio, fosforo, potassio, iodio, zinco). Il succo di limone consente la denaturazione proteica, che migliora la digeribilità delle masse muscolari. Le proteine sono infatti caratterizzate da strutture complesse in cui, oltre ai legami tra i diversi componenti, compaiono varie interazioni chimiche che rendono più lenta l’azione degli enzimi digestivi; il calore, gli acidi, l’omogeneizzazione, la triturazione, ecc. “distendono” le molecole e facilitano la loro successiva rottura. Oltre ai pesci, vengono consumati crudi anche i molluschi cefalopodi (seppie, polpi, calamari), i molluschi bivalvi (ostriche, vongole, cozze, ecc.), i crostacei macruri (aragosta e gamberi), brachiuri (come la grancevola) e stomatopodi (come la canocchia), nonché i ricci di mare (che sono echinodermi). Le carni dei crostacei e dei molluschi, in particolare dei cefalopodi, presentano un tempo di digestione maggiore rispetto ai pesci, perché ricche di connettivo. Quando consumate crude, esse presentano pertanto una modesta digeribilità, di cui si deve tener conto, in ispecie se destinate a bambini ed anziani. I prodotti della pesca consumati crudi pongono tuttavia diversi problemi di sicurezza per il consumatore. I numerosi controlli sono tesi ad individuare la presenza di sostanze chimiche derivanti dall’inquinamento dell’acqua (come mercurio, cadmio e piombo) e la presenza di tossine sintetizzate da alghe unicellulari che vivono in acqua dolce e salata, responsabili di gravi episodi tossici. E soprattutto tali prodotti devono essere esenti da contaminazioni microbiche in grado di provocare tossinfezioni alimentari, poiché viene a mancare il contributo sterilizzante del calore. È inoltre importante che le masse muscolari del pesce crudo o poco cotto non siano infestate da Anisakis simplex, un nematode responsabile di un’importante sintomatologia a carico del tratto gastrointestinale umano. Per effettuare la marinatura il pesce (talvolta prima cotto) viene posto in aceto, sale e spezie; per garantirne una maggiore conservabilità può in seguito essere inscatolato e sterilizzato. L’acido acetico, analogamente al succo di limone, favorisce la denaturazione proteica, rendendo più digeribili le masse muscolari, ed esercita, come il sale, una blanda azione conservativa. Il profilo nutrizionale dei pesci marinati varia in relazione al prodotto ma sostanzialmente differisce poco dall’analogo crudo: l’anguilla marinata presenta un maggior contenuto proteico ma un minore contenuto lipidico; l’aringa marinata ha un valore calorico globale leggermente inferiore e conserva intatto il patrimonio vitaminico e minerale. Per la valutazione dietetica dei prodotti marinati, occorre considerare che alla loro intrinseca composizione si affianca la presenza dell’aceto, controindicato per i soggetti affetti da gastriti ipercloridriche ed ulcera gastro-duodenale, nonché una discreta quantità di sale, che può aggravare alcune patologie, come l’ipertensione. Il consumo di pesci crudi o marinati affonda le proprie radici storiche in molte zone costiere del mondo. Il gusto acido, agro ed agrodolce, dominanti in tutta la cucina medievale europea, con largo uso di aceto, agresto (ottenuto da uve acerbe), succhi di agrumi (limone, limetta, bigaradia), succhi di frutti acerbi o foglie acide (come l’acetosella), permeano tuttora il nostro patrimonio gastronomico. Ne è un brillante esempio l’anguilla marinata di Comacchio: cotta allo spiedo e messa in aceto, acqua, sale, foglie di alloro ed altri aromi e spezie, rappresenta ancor oggi un sontuoso antipasto. Segnalata alla fine del 1800 da Ettore Friedlander, che descrive con accuratezza la marinatura (“l’aceto fortissimo deve stare nella proporzione di kg 57,99 per kg 6,21 di sale; ed il liquido si fa passare per i buchi dei barili”), essa ha raggiunto in passato fama nazionale ed estera ed ora la sua reputazione si è allargata a nuovi paesi e nuove sensibilità culinarie. Gli italiani d’altra parte hanno acquisito nel tempo il gusto per alcune specialità orientali, come il sushi giapponese, interessante esempio di evoluzione culinaria. Dalla conservazione molto prolungata, presumibilmente originaria del sud-est asiatico, di filetti di pesce (soprattutto carpa, trota, anguilla) salati ed alternati a riso bollito (sushi maturato, acidificato con l’acido lattico derivante dall’interazione chimica tra l’amido del cereale e le proteine ittiche), si è passati ad una progressiva riduzione del tempo di macerazione, fino alla formula attuale (sushi schiacciato) in cui il pesce tagliato a fettine viene direttamente posto sull’aceto. Pertanto la salagione e successiva fermentazione sono stati sostituiti con una diretta acetificazione del pesce crudo. Quanto al sashimi (pesce crudo tagliato a fettine sottili), la tradizione giapponese prevede il condimento con aceto, miso (impasto ricavato dai semi di soia), wasabi (mostarda verde), karashi (mostarda forte) e diverse verdure piccanti.

Mirella Giuberti