Macroeconomisti e statisti hanno ben in mente da tempo che, se noi scandagliassimo, a partire dalle colline piemontesi fino alla bassa padana, con forte presenza nelle regioni Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, quell’area che, per altri motivi è di moda definirla Padania (ma il cui colore bianco o rosso a noi non interessa), troveremmo la maggior concentrazione di costruttori di attrezzature agricole e agroindustriali dell’intero pianeta. Su quest’area le aziende familiari e manageriali, grandi medie o piccole, singolarmente o aggregate in gruppi societari, organizzano la produzione e la spedizione giornaliera oltre confine, di un quantitativo di macchine ed impianti definiti genericamente meccanizzazione agroindustriale, che superano complessivamente i 50 miliardi di euro annui. Cifre da capogiro che farebbero da sole la bilancia commerciale di interi Stati che troviamo sui tavoli dei grandi meeting euroasiatici. Fino ad oggi di questo fenomeno non è che non se ne sia parlato. Le grandi associazioni Federunacoma, Assofoodtec ed Ucima, rispettivamente del settore della meccanizzazione agricola, agroindustriale e del packaging, hanno valorizzato queste eccellenze sui tavoli dove si discutono le politiche macroeconomiche del Paese. Ma oggi le leve da muovere superano i confini nazionali, e quando si va a parlare sugli altri e più alti tavoli, non si è figli dell’organizzazione o della nazione che ti ospita. Non si può andare a chiedere (o discutere per risolvere problematiche) per il bene del Paese, ma si deve argomentare cose diverse, che sono sostenibilità, rispetto dell’ecosistema, cooperazione allo sviluppo dei Paesi meno sviluppati; e non si può addurre che un’azienda ha un ruolo sociale locale, come può succedere in alcune vallate appenniniche o in alcune regioni meridionali, dove l’eventuale mancato sviluppo di una unità locale potrebbe riscontrare seri problemi socioeconomici. In questa nuova ottica non è importante chi corre, ma piuttosto cosa porta, o cosa può portare. E soprattutto diventa importante la fiducia che si riesce a trasmettere circa le idee e le soluzioni che si vanno a prospettare. Allora ecco che per trasmettere una fiducia non basta lo standing di una singola azienda (faticano perfino le grandi multinazionali a farsi ascoltare), ma bisogna che la propria idea o soluzione sia sorretta da stakeholders internazionali, Organizzazioni Non Governative, banche di sviluppo sovranazionali (Banca Mondiale, Bers, Asian Development Bank, ecc…) e politiche economiche di aggregazioni intergovernative (Nafta, Sica, Mercosur, Ue, Eac, Asean Free Trade Area, Andean Pact, Sparteca, ecc …). Ma come ho detto, gli accordi internazionali e gli organismi sovranazionali non tengono conto delle opportunità di sviluppo locale, soprattutto se localizzate in Paesi già sviluppati ove un’eventuale crisi di un’azienda trova immediatamente un concorrente pronto ad occuparne gli spazi lasciati. A questi organismi si può solo contrapporre non un’utilità sociale, ma un’identità territoriale (da qui l’Agrifoodtec Valley), e nella misura in cui la stessa si confaccia alle politiche di sviluppo che essi perseguono.

di Nicola Marzaro