Una delizia versatile

C’è tutto un mondo intorno al fico, tra credenze culinarie e gastronomiche, tra ironie linguistiche ed eccezioni verbali. Chiunque nelle cucine d’albergo di qualche lustro andato si è chiesto come mai il nome degli alberi da frutto sono indicati al maschile mentre il loro frutto è al femminile. Ad esempio: come il banano fa la banana, il melo produce la mela, il pero la pera, l’arancio l’arancia, il melograno produce la melagrana, etc. Tuttavia, questa regola non vale per il fico: il Fico fa il fico! Se qualcuno ha voglia di scoprire come mai, basta informarsi e capire che la lingua dotta ha pulito ed epurato il significato volgare del frutto. Proprio per questo, mille risate e giochetti ironici sono nati tra i capi partita e chef di molte cucine alla vista dei fichi in cucina. Lo stesso accadeva quando tra camerieri, gli chef de rang di vecchia scuola, si dilettavano a sbucciare i fichi con il rito della forchetta e coltello davanti alle nobildonne che frequentavano alberghi ampezzani negli anni 80-90. Porgevano loro il frutto, giustamente maturo, su piattino d’argento con il cucchiaino da semifreddo, quello del caco per intenderci, o magari, se il fico era leggermente più duretto, più giovane e meno maturo, veniva servito con la forchettina e coltello da dessert. L’arte era quello di sbucciare il fico con maestria, mai schiacciarlo, privarlo della pellicina senza deformarlo. Arte questa che, da anni non si vede più. Immagino che in ogni luogo e parte d’Italia, tra amici e colleghi, tra giugno e settembre, ad ogni apparizione del fico in cucina, nelle cassette ben avvolte dalle loro foglie, le battute allusive non mancavano mai. Poi seduzione volgeva al termine quando il cuoco più vivace, quello più disinvolto, ironizzava anche su come aver cura del fico in cucina. Innanzitutto, bisogna fare attenzione quando il frutto viene afferrato tra le mani, poi, se la pellicina è sottile o spessa bisogna intervenire con sapienza sulla sbucciatura, farlo con leggerezza, affinché il frutto non abbia a strapparsi e a rovinare l’anima morbida interna. Poi il giusto garbo nel porgerlo alla bocca, decidere se pressarlo tra le labbra, masticarlo con decisione o ingoiarlo dopo il delicato schiacciamento tra lingua e palato. Insomma, una sorta gioco della seduzione, sempre garbato, svolto con cura, tanto che ognuno sosteneva il proprio modo giusto per aprire il fico, sbucciarlo e mangiarlo. Per dirla tutta, il fico ha creato attorno a sé fantasie “TintoBrassiane”. In cucina il fico è stato sottoposto a mille interpretazioni culinarie, accostamenti saggi e sapienti. Il fico apre pranzi e cene con salumi grassi; è amabilmente coccolato tra fette sottili di Culatello, oppure da pancette profumate e tagliate fresche ed è accompagnato anche da formaggi stagionati, selezioni intriganti che non mancano mai, né a giugno né a settembre, proprio come quei fichi di stagione di diverse varietà che sono poi consumati con prodotti da forno caldi, croccanti dalle croste sottili o spesse. Il fico è chiuso in sfoglie e poi cotto al forno e servito con fondute di formaggio; il fico è ripieno ideale per alcune carni da fare arrosto; il fico è crostata, è crema e marmellata. Insomma, il fico è straordinariamente buono! Ma gli intenditori lo preferiscono, vis-à-vis, quando da fresco annuncia il suo garbato profumo, ci fa sentire tra le mani la sua lieve e mielosa collosità, quando una volta dentro la bocca ci suggerisce di masticarlo delicatamente, perché deve farci comprendere il suo lieve antagonismo tra sapidità e dolcezza. Uffa, ma quanto è buono il fico dalla cucina alle tavole. E non mi riferisco mica al Fico di Bologna!