Non credete a chi vi dice che le zuppe sono un’invenzione medievale nata per sfamare la servitù con le fette di pane usate al posto dei piatti e ri-bollite negli avanzi dei calderoni di brodo. Innanzitutto, perché chi poteva permettersi una frotta di servi da nutrire era un benestante e faceva servire il cibo in piatti più o meno preziosi ma sempre solidi; in secondo luogo perché la “zuppa” (a norma di dizionario: alimento semidenso composto da ingredienti carnei o vegetali dispersi in acqua, brodo o altro liquido) è nata non secoli ma decine di millenni fa: prima dei metalli e molto prima dell’agricoltura e della scrittura. Dopo l’arrostitura su fiamma viva già adottata dai nostri progenitori 300000 anni fa, quello della lessatura in acqua di carni e vegetali è ritenuto il più antico sistema di cottura del cibo. Le zuppe neanderthaliane venivano cotte in una fossa scavata nella terra, foderata con pelli animali e riempita d’acqua. In questa buca si immergevano gli alimenti (carni essiccate, ossa ricche di midollo, erbe coriacee, semi e radici) aggiungendo delle pietre arroventate: l’acqua bolliva, i cibi cuocevano e rilasciavano preziose sostanze nutritive che anziché disperdersi restavano nel paleo-brodo che diventava parte di una nutriente archeo-zuppa cotta nella terra. Così fu per centinaia di migliaia di anni, almeno fino a quando si affacciò alla storia Homo sapiens. Nei primi anni ’60 del secolo scorso l’archeologo cinese Li Yanxian scavando nella Grotta di Xianrendong portò alla luce centinaia di frammenti di contenitori in argilla cruda che il radiocarbonio ha permesso di datare al tardo epipaleolitico, al culmine dell’ultima epoca glaciale (20000 anni fa). Si tratta in assoluto della più antica documentazione di vasellame realizzato dai sapiens, il cui uso in cottura è dimostrato dall’annerimento delle pareti esterne. Recentemente dalle porosità e dai graffi delle superfici interne sono stati recuperati e analizzati minuscoli residui biologici di carne, semi e vegetali, sufficienti a far supporre che quelle paleo-pentole fossero usate per preparare delle zuppe. Cuocere il cibo in acqua anziché alla fiamma diretta ampliò notevolmente l’orizzonte culinario di Homo, autorizzandolo a nutrirsi di specie vegetali difficili da digerire crude (come gli amidi e molti legumi) o di erbe troppo delicate per essere arrostite. Con la lessatura gli alimenti non si carbonizzavano, non si disidratavano e cuocevano uniformemente, mentre i succhi rilasciati dalle carni nel liquido, ne accrescevano il valore nutrizionale e gli conferivano gusto; non da ultimo l’aggiunta di semi amidacei, erbe, radici o tuberi regalava una maggiore consistenza alla zuppa incrementandone il potere saziante. A Sparta nell’VIII secolo a.C. la specialità locale era il, per noi disgustoso, “brodetto nero” una minestra (dal latino ministrare = servire) di carne e sangue di maiale in cui si inzuppava il pane raffermo. Nello stesso periodo gli Etruschi riempivano lo stomaco con una zuppa vegetale fatta di cicorie, cipolle, sedano, aglio e… acqua di mare; è quella che tra Lazio e Toscana si chiama “acquacotta” e che, più tardi, i “butteri” maremmani impreziosirono con un uovo, una manciata di formaggio e, lusso supremo, un pezzo di ventresca seccata o un osso di prosciutto. Una variante all’acquacotta etrusca, con l’aggiunta di filetti di pesce sotto sale, si ritrova come “patella lucretiana” in Apicio (II sec. d.C.) assieme a una “tisana barrica” confezionata con farro, ceci, orzo, fave e broccolo. Il medioevo, annunciato da due secoli di invasioni barbariche, inizia convenzionalmente il 5 settembre del 476 con la destituzione dell’ultimo Imperatore. Roma non c’era più ma la fame rimaneva. Povere minestre d’acqua, erbe e poco pane scuro scandirono per secoli la quotidianità alimentare delle città e delle campagne del defunto Impero. Resi inservibili gli acquedotti, toccò ai frati dei monasteri convincere la popolazione a cuocere i pochi cibi disponibili in acqua bollente così da prevenire epidemie causate dalla contaminazione dei pozzi e dall’ignoranza delle più elementari norme d’igiene. Poi, nell’VIII secolo, arrivarono gli arabi in Spagna e un secolo più tardi sbarcarono in Sicilia. Nel bene o nel male questi “invasori” regalarono alla cultura europea un sacco di cose come gli agrumi, la canna da zucchero, il cotone, lo zafferano e soprattutto il riso e la pasta, future e solide basi per zuppe e minestre più o meno consistenti. Tra carestie, pestilenze, epidemie di colera, vaiolo e lebbra, per chi restava vivo le zuppe divennero il piatto elettivo, buono per ricchi e poveri, giovani e vecchi, malati e sani di tutta Europa. Al loro ritmo hanno marciato tutti gli eserciti del mondo, da Alessandro Magno a Napoleone, da Giulio Cesare a Gengis Khan. Il corpo ottomano dei Giannizzeri attribuiva ai propri membri nomi e gradi da brigata di cucina. Sguattero e capo sguattero erano i militari dei ranghi inferiori mentre il comandante della compagnia che era Corbasi, ovvero colui che serviva la zuppa. Ogni giannizzero portava sul cappello un simbolo a forma di cucchiaio che sottolineava il privilegio di mangiare la zuppa dal pentolone della compagnia. La loro autorità all’interno del Topkapi era così forte e temuta da arrivare spesso a cacciare il Sultano; in questo caso l’inizio della rivolta era annunciato dal frastuono dell’enorme calderone di bronzo che troneggiava nelle cucine di palazzo e che veniva rovesciato sul pavimento. Il suono di altri calderoni percossi dai cuochi e il profumo più o meno allettante di zuppa ha annunciato per secoli anche il monotono rancio delle ciurme sulle navi commerciali e da guerra: dense minestre di carne secca, pesce salato e farina cotti nell’acqua dei barili che, a consumarla non bollita, poteva causare tifo e dissenteria. Poi venne Colombo e le cucine europee conobbero il pomodoro, la patata, il mais, il peperoncino e il tacchino, tutti ingredienti che sconvolsero profondamente le abitudini alimentari del Vecchio Mondo cambiando per sempre la tavola mediterranea. A Parigi nei freddi inverni del XVII secolo andavano per via dei venditori ambulanti di zuppe calde di pollo, manzo e legumi. Erano i “potages restauratives” (minestre ristoratrici), serviti, caldi, nutrienti e confortanti in comuni scodelle di terracotta agli operai e ai passanti infreddoliti. Nel 1765 uno di questi ambulanti pensò che una ciotola di zuppa mangiata al coperto sarebbe stata un’alternativa più gradita (e lucrosa) di quella sorbita in piedi o sulla gradinata di una chiesa. Prese in affitto due stanze tra BailleulSaint-Honoré e rue Jean-Tison; allestì una sommaria cucina e aggiunse una dozzina di piccoli tavoli in marmo su cui i clienti potevano ristorarsi con le sue bollenti minestre e qualche goloso extra come polli e capponi al sale, uova fritte e lessate, formaggi e insalate. Per richiamare la clientela affisse all’esterno un’insegna in latino tratta dal Vangelo che diceva: “Venite ad me et ego restaurabo vos”. Il successo fu enorme e l’ex ambulante di zuppe si trasformò in un agiato borghese. Certo Boulanger non avrebbe mai immaginato che proprio grazie alle sue zuppe e al suo modesto locale il mondo intero avrebbe trasformato l’aggettivo “ristorante” in un sostantivo di valore universale. Con un rammarico: nel Belpaese, lo “chef” si rifiuta quasi sempre di proporre minestre e zuppe ai suoi clienti. Mancanza di creatività o paura di non reggere al confronto con i neanderthal?