Il capitano Corrado Russo, siculo doc, guardò l’ora: mezzogiorno e qualche minuto. – Bìssonn – (accento sulla “i” ed enne finale lunga) mi fece, mettendosi il berretto sulla testa completamente calva – ci vediamo oggi”. – Agli ordini – risposi, scattando in piedi. Russo se ne andò, sorridendo. Sapeva che la mia mania di osservare scrupolosamente il galateo militare era un gioco, uno sfottò giocoso tra lui e me, proprio perché non gliene importava niente dei saluti e della disciplina. Mi trattava come un figlio ma non mi dava mai una licenza. Mi diceva sempre: “Ma che ci vai a fare a casa? Se resti qua non stai male quando è ora di tornare”. E così passavano i mesi ed io diventavo sempre più incistato con la caserma. Quel pomeriggio dovevano venire a scegliersi un cuoco, due colonnelli della mensa ufficiali di Firenze. Noi eravamo a Scandicci, ai “Lupi di Toscana”, nell’ufficio selezione del Battaglione Addestramento Reclute. Ci arrivavano duemila reclute ogni tre mesi: alcuni finivano nei paracadutisti, a Pisa. Tra quelli che restavano da noi, c’erano degli sfegatati che si facevano passare sopra da un carro armato, rotolando sotto la pancia del mezzo, qualche secondo prima di finire sotto i cingoli. Alle tre, eravamo in quattro nel mio ufficio, i due da Firenze, Russo ed io, cominciò la sfilata di quelli che avevano dichiarato come mestiere, di fare il cuoco. Andare in cucina, sotto la naja, voleva dire mangiare bene e tanto: a vent’anni e agli inizi del boom economico, non era una cosa da poco. Per cui, molti millantavano esperienze presso ristoranti e trattorie inesistenti. Uno dei due colonnelli era un fighetto di prima: si vedeva che aveva fatto la scuola di guerra. Indossava una divisa che il mio capitano se la sognava, parlava senza accento, profumava di acqua di colonia che doveva costare come un anno della mia decade. L’esame si svolgeva così: entrava la recluta; io passavo la scheda del soggetto, che conteneva tante di quelle informazioni da stupire lo stesso interessato; l’ufficiale meno chic la leggeva, l’elegantone faceva le domande; il capitano verbalizzava. I primi quattro furono cacciati a male parole: le domande erano per una selezione di primo livello: come si fa il brodo di carne o quanto devono bollire le uova alla coque; se rispondevano correttamente, il grado di difficoltà aumentava. Il quinto fu una scheggia. Superò il primo livello su una gamba sola; al secondo non ebbe incertezze. Ci guardammo compiaciuti (in fin dei conti se la qualità della selezione era buona, il merito era anche mio): questo sarebbe stato il prossimo cuoco della mensa ufficiali di Fanteria, destinazione Firenze. I due colonnelli si alzarono e ci alzammo tutti, esclusa la recluta che era rimasta sugli attenti. – E, dimmi – fece il dandy militare, volendo dare il tocco finale a quel momento topico – se ti chiedo di farmi una tartara, che fai? E girò attorno uno sguardo compiaciuto. – Mi assicuro che il macellaio mi dia della carne macinata di….. – Carne macinata? Carne macinata? – urlò l’ufficiale, fuori di sé. – La tartara va battuta al coltello. Come si fa a non capire che è tutta un’altra cosa. Fece un’intemerata davanti al nostro silenzio tombale. Si girò verso il collega, furibondo. Questo, con una smorfia, fece capire che in fondo la cosa non era poi tanto grave. Non ci fu niente da fare. La nostra quinta recluta fu mandata a Pisa, a fare il paracadutista.

Flavio Bisson