Il termine aglio deriva dal celtico “hal” = aspro, bruciante e si riferisce alla sensazione urticante generata dai suoi componenti sulle mucose, sulle papille gustative e sulla pelle. Gli inglesi lo chiamano “garlic”, termine che deriva dal sassone “gar” = spina, aculeo, dovuto alla forma degli spicchi. Indipendentemente dal nome, poche piante alimentari al mondo dividono l’umanità come l’aglio (Allium sativum), il cui composto più caratterizzante, l’allicina, lascia importanti residui nell’alito (ma anche sulla pelle, sui capelli e sui vestiti…) di chi lo mangia. Più di 5000 anni fa un documento in Sanscrito parla dell’aglio come bouthana ovvero “uccisore di mostri”, riconoscendone l’aspetto distruttore contemporaneamente a quello salvifico: “contraria contrariis curantur”, dirà piuttardi Ippocrate, ovvero “i contrari si curano con i contrari”. Questa valenza ambigua era nota anche agli egizi che nel Codice Ebers (un lunghissimo papiro contenente centinaia di ricette terapeutiche) lo indicano come “uccisore di vermi” e anche come antidoto al morso dei serpenti, alle punture di insetti, come rimedio per il mal di testa e per i dolori articolari. Era pianta demoniaca e insana per i sacerdoti greci che tuttavia ne riconoscevano il valore terapeutico per la cura di patologie tipiche delle classi più umili come i parassiti intestinali, i “catarri”, le emorroidi. Aristotele cita l’aglio come tipico alimento dei poveri che da esso traevano energia e salute consumandolo in una spessa salsa con olio e aceto. Anche le classi agiate della Roma antica lo ritenevano un alimento plebeo, al punto che l’espressione latina “allium olere” (puzzar d’aglio) era usata per indicare chi apparteneva ad una classe sociale più bassa, ma Plinio lo presenta come una panacea capace persino di guarire gli epilettici e i malati di mente. Va ricordato che fino all’800 le malattie nervose e gli attacchi epilettici venivano curati con un impasto pestato di aglio e di strutto noto come “Mostarda del diavolo”. Da secoli i taoisti e i bramini lo ripudiano senza mezzi termini perchè sostengono che nutra i demoni del corpo, ma durante le terribili epidemie del medioevo l’aglio veniva impiegato per prevenire la peste, il colera (i medici costretti ad andare in luoghi appestati portavano sul viso una maschera con un tampone intriso d’aglio) e per proteggersi dal demonio. Cassoni d’aglio figuravano fra i redditi dovuti dai contadini al feudatario ed erano poche le case, nobili o plebee, sulla porta delle quali non fossero appese collane d’aglio a cui era affidato il compito di scacciare il demonio. Fino a pochi decenni fa in molte campagne europee le collane d’aglio venivano messe al collo dei bambini che soffrivano di parassiti o “vermi” intestinali. Oggisi sa che l’azione vermifuga è svolta da due composti antibiotici (garlicina e alisina) che riescono ad eradicare tenia, ascaridi e ossiuri. Da quando Bram Stoker nel 1897 si ispirò alla figura di Vlad III principe di Valacchia per scrivere il suo “Dracula”, è risaputo che l’aglio è anche un formidabile antidoto contro i vampiri. In effetti vi è una evidente analogia tra i vermi intestinali e i vampiri, poiché entrambi svolgono un’attività capace di sottrarre energia vitale al malcapitato. Per semplice curiosità va detto che la figura del Vampiro – precedente di secoli al Dracula – è nata dall’osservazione di persone affette da porfiria o morbo di Gunther una malattia degenerativa che si manifesta anche con fortiustioni alla cute esposta ai raggi solari. Il decorso della malattia provoca oltre a notevoli problemi neurologici anche un continuo riassorbimento delle gengive che lascia scoperti i denti fino a farli apparire più visibili. Così si spiegano molte caratteristiche peculiari di questi esseri fantastici, che hanno denti lunghi e aguzzi, che odiano il sole e che possono vivere solo sottraendo liquido vitale (sangue) ai viventi.
Creature demoniache e ripugnanti contro le quali l’aglio, dicono, faccia miracoli. Al di là delle infinite proprietà salutistiche dell’aglio, il profumato bulbo fa i veri miracoli incucina. Non esiste una vera gastronomia italiana senza aglio, un aromatizzante ineluttabile, perentorio e insostituibile. Certo, il suo odore/aroma può non piacere, si porta dietro una fama “plebea” ma i veri e propri casi di intolleranza sono molto rari in letteratura medica. Ovviamente va usato in maniera sensata per evitare che prenda il sopravvento sugli altri ingredienti, ma escluderlo dalla dispensa e dalla cucina è un grosso errore. Con cosa mai potremmo sostituirlo in una zuppa di pesce, su un brasato, in un ragù o su un’arista al forno? E la “bagna caôda”, il “pollo alla diavola”, l’abbacchio al forno, la porchetta? Una ragionevole quantità di aglio fresco aggiunta a carne, frutti di mare, verdure e perfino ai tartufi, definisce meglio i contorni dei sapori, li vivacizza, li esalta rendendoli più definiti e acuti. Per ridurne l’impatto aromatico senza escluderlo dalla millenaria tradizione, basta lasciarlo qualche ora in olio o nel latte freddo prima di usarlo, ricordandosi di togliere l’eventuale germoglio verde che si manifesta negli esemplari più vecchi. Uno spicchio sbucciato e schiacciato diffonde nel cibo un profumo intenso che può essere ridotto lasciandolo intero durante la cottura. Chi ama solo le note dolci farà bene a metterlo in tegame senza spogliarlo della sua tunica vegetale. Sono convinto che gli osti, cuochi e Chef che si vantano di non usare aglio per partito preso, siano scioccamente uguali a Re Alfonso X di Castiglia che, istituendo il suo ordine cavalleresco, ingiunse ai suoi cavalieri di non comparire a corte e di non comunicare con altri nobiluomini per un mese intero, se avessero mangiato aglio. Il suo odio per questo ortaggio non gli permise mai di apprezzare fino in fondo il suo riconosciuto potere afrodisiaco con reali effetti stimolanti per il sesso maschile. Ne avrebbe avuto bisogno, anche perché doveva tenere a bada una moglie assatanata e stuoli di amanti! Conferma questa virtù impudica dell’aglio anche il divieto imposto per secoli ai monaci di coltivare e consumare aglio per non macchiare la loro sconsolata santità. A noi laici (con sporadiche e benevole incursioni “laide”) l’aglio piace da impazzire purchè non sia quello irradiato che proviene dalla Cina né quello essiccato in vasetto, buono tuttalpiù a tener lontane le lumache dal giardino. Vada per i buoni agli francesi, un po’ meno per quelli spagnoli e greci ma scegliamo sempre e solo tra le oltre trenta varietà di aglio italiano: dall’Aglio bianco Piacentino a quello Polesano, da quello di Voghiera agli striati rossi di Vessalico e dell’Ufita, fino ai rossi di Nubia, di Proceno e di Sulmona, al piccolo screziato di Resia, al biancastro massese di Monticelli, al Bianco Invernale e al Borgognone di Molino dei Torti.

Sergio G Grasso