Tra tutte le specie commestibili che Madre Natura ha messo a disposizione dell’uomo senza richiedere difficili e azzardate salite sugli alberi (da cui, secondo il buon vecchio Darwin abbiamo fatto altrettanta fatica a scendere) e senza laboriosi scavi di ricerca, vi è una categoria di frutti che sembra fattappòsta per soddisfare il bisogno primario di nutrire e soddisfare. I botanici raggruppano questi vegetali nella categoria dei “legumi” dal latino lègere che significa raccogliere ma anche scegliere. Le tracce più antiche di coltivazione di leguminose sono state trovate in una grotta nel nordovest della Thailandia. Gli abitanti della caverna coltivavano – quasi diecimila anni fa – due distinte tipologie di fave e una qualità di piselli notevolmente più grossa rispetto a quelli comuni (grandi quanto l’unghia del mignolo) che crescevano spontaneamente nel sudest del Afganistan, nell’Asia Centrale e ai piedi dell’Himalaya. I legumi – non solo i fagioli ma anche le fave, le lenticchie, i ceci, le cicerchie, i piselli – hanno lasciato una lunghissima traccia nella storia del genere umano. Una traccia che si snoda lungo un’interminabile teoria di fame, carestie, miserie… quotidianità di gente comune, tragedie lunghe millenni, a cui da poco tempo gli storici hanno rivolto la dovuta attenzione. Un piatto di lenticchie è preso dalla Bibbia come simbolo della stoltezza di Esaù, già predestinato a guidare il popolo di Israele in quanto primo figlio di Isacco. Il consumo di lenticchie che facevano i romani e che importavano dall’Egitto, era enorme. Cibo popolare ma anche pietanza ammessa agli onori della mensa imperiale. Magari in modo un po’ strano, come quello prediletto da Eliogabalo, l’imperatore pazzo che si divertiva a cospargere manciate di pietre preziose sui piatti di lenticchie offerti ai suoi ospiti. Facile immaginare l’esultanza dei dentisti dell’Urbe! Oltre ad uno smodato uso alimentare, le lenticchie venivano usate anche come air-bag per i carichi di merci fragili che attraversavano il Mediterraneo a bordo della navi onerarie. L’obelisco di Piazza San Pietro in Vaticano, per esempio, fu traghettato a Roma da Alessandria d’Egitto – sotto l’imperatore Caligola – ben sistemato al centro di 120 mila misure di lenticchie! Ai legumi sono anche legati i nomi di alcuni personaggi celebri della romanità. Il grande Cicerone era così chiamato per grossa escrescenza che ornava il suo naso, fatta appunto in forma di cece (cicer in latino). Ma anche la nobile famiglia dei Fabii mutuava il proprio nome dalla fava così come Gaio Calpurnio Pisone (dal latino Pisum = pisello) che ordì una congiura contro Nerone o i nobili appartenenti alla famiglia dei Lentuli (da lens = lenticchia). Nessun altro gruppo di alimenti ha mai ottenuto un tale onore nella storia. Da più parti si sostiene che prima del 1492 il Vecchio Continente non sospettasse nemmeno l’esistenza del fagiolo (il cui nome, per inciso, significa “piccola fava”). Eppure la prima ricetta documentata di fagioli la dobbiamo a quel Marco Gavio Apicio, patrizio romano del I secolo d.C., che li consiglia fritti e conditi con pepe o cucinati in tegame con finocchio verde e sapa, un mosto cotto piuttosto ristretto, antesignano dell’attuale aceto balsamico. Ancora più indietro nel tempo ci spingono le relazioni archeologiche dell’università di Tubinga sugli scavi in corso nell’antica città di Troia in Turchia. Pare che del favoloso tesoro di Priamo facessero parte molte giare di fagioli, considerati – tremilannifà – esotica e rara vivanda. Favoloso più che mai questo tesoro, giacché “favola” è parola derivata da fabula, in latino piccola cosa di poco conto, come le fave. Entrambi, quelli di Apicio e quelli di Priamo, erano i fagioli dolici d’Egitto (Dolichos lablab), semi di una pianta originaria dell’Africa tropicale, coltivata già nel 4000 a.C. e diffusa nel bacino mediterraneo almeno 1500 anni prima della nostra era. Noi li conosciamo come i “fagioli dell’occhio” e pur appartenendo alla stessa famiglia del Phaseulus vulgaris sono più piccoli di questi, di colore bianco e dotati di una caratteristica macchia nera nel punto in cui il seme si salda al baccello. Usati da secoli, con le lenticchie, anche come fertilizzante per le campagne, i fagioli “dell’occhio” non godevano però di buona reputazione alimentare nel medioevo. Erano considerati dai potenti come cibo rozzo e villano, tuttalpiù mangime per animali. Questo non impediva al popolino di consumarne in abbondanza, anche in forza delle presunte proprietà afrodisiache dei legumi. Sulle virtù – almeno benefiche se non proprio erotiche – del fagiolo-carne-dei-poveri, dice la sua anche Eduardo De Filippo in Natale in casa Cupiello: pasta e fagioli, come medicina per cacciare una febbre di origine “viscerale”. Gioielli rari e preziosi sono i fagioli di Onano (Viterbo), quelli “del Purgatorio”, gli “Zolfini”, il “Tabacchino” di Sarconi (Potenza) i gustosissimi “Ciavattoni” e gli straordinari Fagioli di Lamon, i primi a germogliare in Europa dopo la scoperta delle Americhe. Del buon uso e della capacità di interpretare al meglio i doni di cui Madre Natura è provvida (nonostante gli insulti e gli assalti a cui la sottoponiamo) sono dimostrazione le mille e più preparazioni a base di legumi di cui la gastronomia Italiana è ricca e brillante. Figlie di una storia e di una cultura da pensare con dolcezza e mangiare con rispetto, per quanto “rumorosa” e senza nobiltà.