C’è un detto che legittima l’orgoglio di un prodotto prezioso come il formaggio: “la mucca rende ciò che mangia” . Così l’erba dei pascoli non può che “rendere” un latte eccezionale per qualità. Nel Veneto un formaggio di grandissima importanza (il quinto latte vaccino venduto in Italia) è l’Asiago, formaggio che raramente supera i 180 giorni di vita ed appare, nella sua morbidezza iniziale, un concentrato di sapori di dolce “pannosità”. Come tutti l’Asiago è un prodotto di non grande difficoltà per la produzione: latte, caglio, sale e poche altre cose. Per quanto riguarda il nostro formaggio di malga, fatto cioè sull’Altipiano, si scalda il latte di due mungiture, quella della sera e del mattino nel “calieron”, si aggiunge il caglio e si mescola con la “rodela” e lo si lascia riposare un poco, finché la cagliata si stacca dalle pareti di rame del “calieron”. Allora, usando “l’arpa” o la più moderna “cipollina” si comincia a “trizzare”, cioè a rompere la massa, finché non diviene come un grano di mais, o di riso. Poi si riscalda un poco, cioè “se la tien su”, muovendola con l’arte e la sensibilità che solo il casaro conosce. E’ finito tutto: la si lascia depositare e la si fa divenire una forma, che viene avvolta nelle fascere. Ma per far questo si richiede esperienza, amore, cultura. Solo così i passaggi della produzione, antichi ed immutabili, portano a formaggi nei quali si sente ancora il dolce sapore del latte, di una materia prima che è testimonianza di un lavoro silenzioso, che non lascia mai spazio alla casualità. Ed oltre al nostro Asiago, nelle due versioni d’allevo (da stagionare) e pressato (da mangiare giovane, dal sapore delicato di latte fresco) è in corso un grande, positivo momento per i formaggi italiani. Figli di una considerazione non molto importante nella cucina del tempo andato (i formaggi si esaltavano nelle preparazioni dei piatti più che nella loro intrinseca bontà) sono ora giunti ad un punto di grande considerazione. E se è vero che De Gaulle dichiarava che era praticamente impossibile governare un paese che aveva trecento tipi di formaggio, che possibilità hanno di farlo i nostri politici che di formaggi tradizionali italiani ne hanno ben 460? Siamo i terzi in Europa in quanto a consumo pro-capite, con 22.3 kg, dietro alla Francia ed alla Grecia. I Formaggi DOP, i grandi della “formaggeria italiana”, sono oltre trenta con una produzione di oltre 430 mila tonnellate. E fra queste centinaia di formaggi qual è da considerarsi la “ Rolls Royce” dei formaggi? A parte che fare certe classifiche non è corretto, in quanto il gusto è individuale e ciascuno opta per ciò che più lo aggrada, resta certamente di grandissima validità il Bettelmatt, che deriva dal latte di mucche di razza Bruna alpina che vivono allo stato brado in alta quota nella Val Formazza, nel territorio dell’Ossola, sulle Alpi. Formaggio di gradevole sentore di latte, dolce ed aromatico, quasi burroso al palato, gode del fatto che le mucche mangino un erba, Mutellina o Mattolina, una specie di “prezzemolino” che conferisce al latte, e di conseguenza al Bettelmatt, un aroma inconfondibile. La ristorazione ha scoperto, da non molti anni, la validità di un importante carrello dei formaggi, e la crescita di questo momento del pranzo sta avvenendo con buona progressione. Certo gioca un ruolo negativo il fatto che il formaggio arrivi in tavola come prodotto “residuale”, quasi alla fine del pranzo, quando ormai si è già “sazi” ed inoltre come sia necessario bere. Dopo un paio di bocconi il formaggio reclama il naturale complemento: un buon sorso di vino…Sta ora crescendo l’abitudine, il che non era vero fino a qualche anno fa, che un cliente vada in “quel” ristorante perché c’è un buon carrello dei formaggi. Giocano un ruolo molto importante, nella cultura del formaggio, quelli che sono i “maîtres fromagers”, non oltre i 15 in Italia, personaggi che prendono alcune partite di formaggio e ne curano la maturazione con la loro grande esperienza: noi abbiamo Alberto Marcomini. Grande nemico dei formaggi prodotti con latte pastorizzato, amico della vera identità del formaggio, conosce tutti gli aspetti culturali, socioeconomici e gastronomici dello sterminato panorama caseario italiano, esaltandone il valore e la rarità di alcuni, la necessità che il loro carattere non venga snaturato. Insomma ha passato gli ultimi 25 anni della sua vita con le mani ed il naso nel formaggio fino a divenire un intransigente testimone e difensore di come il buono debba essere sempre rispettato. Va, è proprio il caso di dirlo, a “lume di naso”.