Quando ho ospiti a cena e porto in tavola un vassoio di formaggi e un cestino di pane, nessuno riesce a fare a meno di tagliarsene un pezzo per tipo. Mai per fame, spesso per curiosità, qualcuno con voluttà, nessuno con superficialità. Li presento su un tagliere di legno d’olivo coperto di carta paglia, al naturale, senza fronzoli a corromperne la purezza e la semplicità. Ai formaggi freschi riservo invece un vassoio di vetro a scomparti in grado di contenere le diverse mollezze e fluidità. E parlo di formaggi rispettabili e virtuosi, non i formaggini, le “sottilette” e i mille intrugli industriali realizzati con sali di fusione (polifosfati) ed emulsionanti. Generalmente il consumatore medio non ha difficoltà a comprendere la differenza tra un “grana”, un “pecorino” e un “provolone” ma fatica a distinguere le qualità organolettiche di una robiola da quelle di una crescenza e, sbrigativamente, le accomuna entrambe sotto la dizione di “stracchino”. Colpa di un approccio superficiale ai cibi teneri, molli o granulosi, che vengono ingeriti senza essere masticati a sufficienza. Succede con i formaggi freschi ma anche con i minestroni di verdura, col riso, coi patés, col gelato… La saliva non espleta solo un’azione lubrificante ma anche digestiva: si lega alle proteine del cibo, pre-digerisce gli amidi, solubilizza i sali e gli zuccheri portandoli a contatto con le papille gustative. Non masticare un alimento solo perché ha una consistenza morbida, ne pregiudica tanto la corretta assimilazione, quanto la completa percezione del gusto e aroma: per questo i formaggi freschi e morbidi si mangiano con superficialità e si fatica a coglierne i pregi organolettici. Quando si parla di formaggi “molli” bisogna operare una distinzione tra quelli freschi e cremosi, privi o quasi di crosta, poco o per nulla sapidi, lattosi e ricchi di acido lattico (Stracchino e Crescenza lombardi, Robiola delle Langhe, Fallone di Gravina, Giuncata Calabrese, Casatella Trevigiana, Squacquerone e Raviggiolo romagnoli, Prescinsêua Ligure ecc.) e quelli di breve/media stagionatura, teneri, a crosta sottile, di gusto dolce e poco acido, aroma e profumo lattoso (Gorgonzola, Pannerone Lodigiano, Murazzano, Quartirolo, Vastedda della Valle del Belìce, Caciotte e Tume fresche ecc.). Non manca mai nel mio “plateau” qualche esemplare di Caprino, tipologia troppo spesso considerata marginale dal consumatore e giudicata fino a qualche anno fa prerogativa dei nostri cugini d’oltralpe. Eppure l’Italia ha una tradizione millenaria nell’elaborazione dei formaggi di capra, tenuti in grande considerazione nel mondo magnogreco e romano fino a quando le invasioni barbariche resero insicure e pericolose le transumanze. Nel Medioevo con l’aumento dei seminativi, dei prati-pascolo e delle bonifiche, le capre furono confinate nei boschi per destinare gli erbai alle pecore. L’allevamento subì una nuova contrazione numerica nell’800 in seguito all’accusa rivolta alle capre di rovinare siepi, campi, giardini e orti, di facilitare le frane, di distruggere i boschi e perfino di trasmettere all’uomo malattie; in realtà l’interesse era quello di favorire il più redditizio allevamento di bovini e ovini. Un duro colpo ai proprietari di capre fu dato dal regime fascista che vietò il pascolo animale in tutte le aree boschive e che introdusse una onerosa “tassa sulle capre” con lo scopo di limitare fenomeni di degrado ambientale; dagli oltre tre milioni di esemplari presenti in Italia del 1926 si giunse in 15 anni a meno di un milione. Con la crisi della pastorizia e il massiccio esodo rurale causati dalla “rivoluzione verde” dagli anni 60 del ‘900, il parco caprino italiano – che contava fino a mezzo secolo prima oltre settanta razze caprine – si era praticamente azzerato e i caci di capra divennero da noi quasi una rarità. Solo negli anni ’80 si manifestò un certo risveglio d’interesse per questi mammiferi straordinari, capaci di adattarsi alle situazioni e agli ambienti meno ospitali. Nonostante il termine “caprino” sia oggi impropriamente riferito a molti formaggi industriali freschi ricavati da latte vaccino, negli ultimi vent’anni la produzione di veri formaggi Caprini (con la “C” maiuscola) è in netta ripresa, e non su presupposti modaioli ma per ragioni ambientali, salutistiche e organolettiche. Allevare capre costa poco perché i greggi non richiedono cure particolari, si adeguano ai pascoli più esigui e riescono a mangiare anche foraggi molto fibrosi disdegnati da bovini e ovini. Ogni esemplare femmina può produrre oltre 900 litri annui di latte a ridotto contenuto di lattosio e molto simile a quello umano; questo spiega perché la capra è stata una presenza costante e numerosa in ogni cultura rurale e perché, ancora oggi questo mite mammifero sia considerato una risorsa indispensabile nei paesi del terzo mondo. Tornando al mio (e al vostro) vassoio di formaggi molli e freschi, non è più obbligatorio rivolgersi agli “chèvres” francesi per far felici i commensali. Basta individuare un buon negozio di formaggi – ve n’è di fantastici e non solo nelle grandi città – e soffermarsi davanti al banco frigo. Il mio “spacciatore” a Roma la scorsa settimana mi proponeva una lista più che rappresentativa del paniere di caprini italiani: il Cacioricotta del Cilento, il Caprino della Valbrevenna, la Formaggetta savonese, la Marzolina degli Ausoni e della Val Comino, i Caprini della Val Vigezzo e della Valsesia, la Robiola di Roccaverano e Mondovì, il Paddùni siciliano, i Caprini della Maremma e il Formaggio di capra di Lagundo. Certo, il Sor Antonio è un grande specialista di formaggi di alta qualità, ma anche i suoi colleghi meno forniti e assortiti non esiteranno a procurarvi il caprino che fa al caso vostro, purché lo ordiniate con qualche giorno d’anticipo. A voi non resterà che metterlo sul vassoio o sul tagliere di servizio e osservare l’effetto che farà sui vostri commensali. È strano ma la comparsa in tavola dei formaggi sarà il momento più coinvolgente e vivace della cena, in cui tutti si sentiranno in dovere non solo di chiedere ma anche di dire, di raccontare esperienze personali. Potenza del latte immortale: attorno a un vassoio ben assortito di formaggi – teneri, duri, vaccini, caprini, giovani o stagionati che siano – e con la complicità di qualche bicchiere di vino, ho sentito riaffiorare ricordi, rimpiangere amori, rivangare idiosincrasie, narrare viaggi, perfino rinfacciare rivalità professionali, tradimenti di coppia e colpe mal rimosse. Col caviale, il foie-gras o le aragoste al massimo si parla di donne, soldi e fuoristrada.