Ah, come dimenticare gli spensierati anni della gioventù, quando, suonata la campanella dell’ultima ora del sabato, si correva a casa, liberi, felici, rispettando, però, tutte le regole che si imponevano per la cura della persona e dell’anima. Pomeriggio, il catechismo, una partita di pallone, la confessione in chiesa, che anticipava la messa cantata della domenica, indispensabile per ricevere la comunione. A dire il vero, mi davano un po’ fastidio tutte queste imposizioni, ma erano le regole. Il sabato sera prima di cena il fatidico bagno in vasca, dopo aver depurato l’anima, era arrivata l’ora della purificazione corporale. Riuscivo a stare in ammollo anche più di un’ora, organizzando con le mie barchette di plastica delle vere e proprie battaglie navali, incurante delle urla di mamma che mi ordinava di uscire. Eh sì, devo ammetterlo, ero un po’ testardo, papà mi chiamava “il tedesco”, non tanto per i miei capelli biondi, ma per la mia cocciutaggine. Così finiva il sabato, ma già pensavo al pranzo della domenica, per me sacro. Dopo la Santa Messa, che non finiva mai, si entrava nella vicina pasticceria, era d’obbligo terminare il pranzo con i dolci, e con i soldini dati dalla nonna. Con i miei fratelli si litigava sui gusti delle pastine da scegliere: chi le voleva di un tipo, chi di un altro. Varcata la soglia di casa, i profumi che fuoriuscivano dalla cucina erano esagerati, le papille del palato iniziavano un lento lavorio di salivazione. Si entrava in punta di piedi, la stufa economica a legna ospitava pentole di tutte le dimensioni, in ognuna la prelibatezza senza pari. Con una forchetta nascosta dietro la schiena, nei momenti di distrazione di mamma e nonna, si rubacchiava un po’ di tutto, il forno però era intoccabile, ma attraverso il vetro si poteva intravvedere il principale piatto, il pezzo da novanta del pranzo della domenica: Sua Maestà il Pasticcio! Era lì, lentamente nella sua superficie si formava una leggera crosticina, era come vedere un ilm proibito. In Veneto il pasticcio è l’equivalente della lasagna italica, ma il nome Pasticcio aveva un suo perché, esattamente contrario al suo vero significato di pasticcio, una cosa riuscita male. Per preparare questa delizia, ci vuole pazienza e amore per il cibo, ovviamente, bisogna metterci l’anima. Si preparano delle sfoglie di pasta fresca, dove le uova si tuffano in una fontana di farina accompagnate da un pizzico di sale e una goccia di olio, si lavora il tutto sino ad ottenere un impasto omogeneo ed elastico. Le sfoglie si alternano con un ragù di carne, sapientemente cucinato, e salsa di besciamella, che già si preparava nel tardo 1600 in Francia in onore del cortigiano Marchese Louis de Bechamel. Un po’ di storia non guasta, quindi dopo aver completato questo intercalare di lussuria gastronomica, il pasticcio, dopo una generosa nevicata di Parmigiano Reggiano, è pronto per varcare lo sportello del forno. Nel mio continuo errare gastronomico, scopro ogni giorno delle varianti incredibili dedicate alla pasta ripiena, ogni regione possiede una tradizione diversa dalle regioni confinanti, e devo ammettere che l’Italia è l’unico paese al mondo che ne possiede così tante. Penso ai Casoncelli bergamaschi, delle mezze lune di pasta ripiene di formaggio Branzi della bella Val Brembana, o i suoi omologhi delle Dolomiti Ampezzane ripiene di rape rosse e conditi con burro di malga e dolci semi di papavero. Che dire dei ravioli farciti con il nobile formaggio Castelmagno, prodotto dal mio caro amico Giorgio Amedeo durante l’estate a 2000 metri di altezza, in pascoli incontaminati? Per non parlare dei tortelli romagnoli ripieni di formaggio fresco, che fanno a gara con il tortellino bolognese, chiamato l’ombelico di Venere, eterni rivali del capelletto modenese. Un po’ più in là Parma con i suoi tortelli, e qui mi fermo a Fornovo, alla mitica Osteria delle Vigne, dove Cristina prepara dei tortelli celestiali, ripieni di quello che la stagione ci offre, carciofi, patate, funghi, zucca e chi più ne ha più ne metta. Il piatto che amo degustare in questa meravigliosa osteria, dove il tempo sembra essersi fermato, sono gli Anolini, bottoni di pasta ripieni di carne, un tempo destinati alle tavole dei ricchi, o, come piacciono a me, ripieni di pane bagnato nel brodo e abbondante Parmigiano Reggiano, il tutto inondato da un profumatissimo brodo di cappone. Questo era il piatto dei poveri che non potevano permettersi la preziosa carne. Non si può lasciare questo paradiso senza assaggiare la lasagna fatta con sfoglie di pasta verdi, impastate con gli spinaci, un’opera d’arte. Il mio viaggio continua, questa volta sono nella selvaggia Maremma, nel caseificio Il Fiorino, dove ogni giorno Simone produce un pecorino da Nobel, il Riserva del Fondatore, perfetto per farcire il tortello maremmano, antico retaggio dei magnifici butteri. Scendendo nel piccolo, ma affascinante Molise, nel Caseificio Di Nucci si produce uno dei più buoni e intriganti formaggi freschi, la Stracciata Molisana, una sorta di cachemire, di latte, perfetto per farcire sublimi tortelli spolverati alla fine del regale Caciocavallo di Agnone, fatto e plasmato dalle mani di Franco, maestro d’arte casearia. Non si possono dimenticare i ravioli ripieni di burrata fatta come un tempo nel Caseificio “In Masseria” a Grottaglie in Puglia, conditi con il suo profumato olio e pomodorini vesuviani del Piennolo. Sbarco in Sardegna e a Budoni, in Gallura, nel ristorante “Lu Stazzu”, incontro i più buoni Culurgiones della mia vita, scrigni di pasta fatta in casa, ripieni di ricotta e pecorino sardo, conditi con pomodori dell’orto e abbondante basilico, una libidine. Questi sono alcuni esempi di pasta ripiena, ma il mio viaggio continua alla scoperta di altri tesori che solo l’Italia sa donare.