Come al solito, era in ritardo. Doveva consegnare all’editore il primo capitolo del terzo libro, sul quale aveva ricevuto un congruo anticipo e aveva davanti lo schermo bianco, intonso, del suo piccolo portatile. Il primo libro era stato un successo inatteso: pubblicato in sordina da un editore trevigiano, era balzato agli onori in testa alle classifiche per quell’incomprensibile percorso per cui magnifici capolavori vanno al macero dopo tre mesi e altri, come il suo, avevano avuto cinque ristampe in un mese. Era stato anche intervistato come caso letterario del momento e la benevolenza del pubblico era stata favorita anche dal fatto di essere uno scrittore di successo a trent’anni. Le vendite del libro erano state una manna per la casa editrice che era stata puntuale nel versargli i diritti d’autore e, con altrettanta solerzia, lo aveva messo sotto contratto per la pubblicazione di altri cinque romanzi, in altrettanti anni. Lui aveva firmato, sicuro della sua fantasia e del suo talento. Il secondo era andato un po’ meno bene ma sempre, comunque, con tirature da far schiattare d’invidia i vecchi amici del circolo letterario. E adesso non aveva più birra in corpo. Niente di niente; nessuna idea su dove andare a parare. Aveva affittato un vecchio casale sulle colline di Asolo, pensando che la quiete dei posti avrebbe favorito la sua concentrazione. Si era anche comprato l’ultimo gioiello della fabbrica di Cupertino ma zero virgola zero. Aveva perfino chiesto alla fidanzata di non andarlo a trovare per un paio di settimane. Tutto inutile. Adesso era lì, sul tavolo sotto l’ampio portico da cui guardava la pianura padana, velata di foschia e piena di capannoni, in piena crisi da foglio bianco. Aveva spento il cellulare perché sapeva che, come l’avesse acceso, sarebbe apparsa la chiamata “rosso vivo” del suo editore. Bisognava capirlo: anche lui s’era speso in promesse con i lettori in attesa.- Ehi, ehi! – una voce lo chiama dal portone sul retro. Per la sua tranquillità non aveva fatto mettere il campanello all’ingresso. Va a vedere: è un venditore ambulante che serve le case della zona. Che fare? Meglio distrarsi un po’ e sceglie della frutta a caso, più che altro per il colore. Il fruttivendolo viaggiante avrebbe chiacchierato un po’ di più, anche per sapere qualcosa di questo nuovo arrivato che viveva da solo ma il giovane aveva tagliato corto, vista l’insistenza nel fare domande dell’altro. Gironzola per la casa; si siede al computer; si rialza e guarda l’ora. Vuoto, vuoto pneumatico, vuoto assoluto. “E sono in ritardo di due mesi”, constata! Si avvicina al sacchetto della frutta e prende una pera. Bella, ben fatta, colori pieni, saturi. Cerca un coltello e la taglia a metà, di netto. Tra la polpa bianca, che gronda umore, c’è un cuore marrone scuro, disgustoso. “Guasta, per la miseria, è guasta, eppure da fuori sembrava splendida”. Riaccosta le due metà e il frutto sembra tornato come prima. La ripone delicatamente sul tavolo, sorreggendola col sacchetto di carta, in modo che mantenga la sua forma primitiva, ma questa, lentamente, si separa nelle sue due parti. Ritenta la ricomposizione ma non ha successo. Respira a fondo: “ci siamo!”, si dice. Agita il mouse, lo schermo riprende vita e la storia ha inizio. “Federico Astolfi, procuratore presso la Terza Sezione Penale del Tribunale di Padova, aveva dei forti sospetti. Ma non osava decidersi. Molti indizi gli avevano insinuato nel cervello l’idea che sua moglie lo tradisse. Mezze frasi, improvvise assenze, continue riunioni con i colleghi dell’azienda presso cui era segretaria di direzione. Ma mai, durante gli anni di matrimonio precedenti, la signora Astolfi era stata tanto gradevole e ottima compagna. Aveva il dubbio che la pera fosse guasta dentro, malgrado la bellezza esterna non facesse presagire nulla di ciò. Esitava a scatenare quel lungo processo che porta a dolori e incomprensioni. Sapeva che se avesse tagliato in due il frutto e i suoi sospetti non si fossero rivelati veritieri, qualcosa si sarebbe rovinato per sempre”.