Fu Martin Lutero, nel 1517, che, senza volerlo, spinse in Italia il consumo di questo “pesce bastone”, vanto della gastronomia vicentina. Il suo contrasto al potere papale, pubblicato su un foglio affisso sul portale di Wittemberg (le famose “95 tesi”) portò, come reazione nella Chiesa, anche il mangiar di magro come “viatico per l’anima” e così ci si ricordò di come, nel 1432, il veneziano Piero Querini aveva, in un naufragio avuto alle isole Lofoten, lassù in Norvegia, conosciuto e portato in Italia il baccalà. Non era stato, a quei tempi, particolarmente apprezzato, ma dopo le direttive del Concilio di Trento, nella seconda metà del ‘500, il popolo trovò in questo alimento una valida soluzione alle imposizioni religiose circa il mangiar di magro. Il pesce-bastone, seccato ai venti del Nord, divenne preziosa ed appetita merce di scambio, barattato con qualsiasi altro prodotto, fonte di ricchezza dei paesi nordici. Talmente prezioso che le marine militari inglesi e francesi proteggevano i loro pescherecci perché venisse effettuata la pesca, in quella che venne addirittura definita “la guerra del merluzzo”. Così sulle nostre tavole arrivò sempre più di frequente il baccalà, anzi, lo stoccafisso.

La differenza è nel sistema di conservazione: lo stesso pesce, il merluzzo, se salato è chiamato baccalà, se seccato è stoccafisso. Ma questo non vale per i Veneti che chiamano bacalà quello che tutto il mondo chiama stoccafisso! Fu importante, questo pesce, nella storia della gastronomia? Ahimè, no assolutamente. Ne parlano, è vero, i grandi scrittori rinasci mentali, ma lo considerano un piatto povero, non raffinato. Perfino l’Ar- tusi non lo vede di buon occhio!

Un grande rilancio lo si ha, da circa tre decenni, per merito della “Venerabile Confraternita del bacalà alla vicentina“ di Vicenza che ha riproposto in campo nazionale questo piatto, parte importante nella storia della gastronomia di famiglia. Un successo di tutta una gente che, anche in cucina, lavora “seriamente” e ha buon gusto!

Difficile è il sapere per quale motivo il bacalà ha trovato a Vicenza uno dei suoi luoghi d’eccellenza. D’altronde perché, sempre Vicenza, è la capitale mondiale del catename in oro? Si è creato un “circuito” virtuoso che fa sì che qui il piatto assuma valenza nazionale: sono pochi, infatti i piatti che portano il nome della città nella dizione. E la ricetta è relativamente semplice: solo latte, formaggio, olio e poche altre cose per questo piatto che si accompagna naturalmente con la polenta.

Questa la ricetta che la Venerabile Confraternita ha stilato come minimo comune denominatore di una serie di ricette, tutte casalinghe. Ingredienti: 1 kg di bacalà secco (bagnato diventa 2.5 kg); 500 gr di cipolle; % di litro d’olio d’oliva delicato; 3-4 acciughe; % litro di latte fresco; poca farina bianca; 50 gr di formaggio grana grattugiato; prezzemolo; sale; pepe.

Ammollato lo stoccafisso in acqua fredda per 2-3 giorni, ben battuto (ora si acquista già pronto) si apre il pesce per lungo, dopo aver tolto una parte della pelle, lo si delisca. In una padella, dopo aver finemente affettate le cipolle, le si rosolano con un bicchiere d’olio, si aggiungono le acciughe dissalate, deliscate e tagliate a pezzetti e, a fuoco spento si aggiunge prezzemolo tritato. Si apre il pesce e lo si farcisce con metà del soffritto, con parte del formaggio e si richiude. Lo si taglia a pezzi regolari che vanno posti in una teglia dopo essere stati infarinati, ricoperti con l’altra metà della farcia, si aggiunge il latte, l’altra parte del grana grattugiato, il sale, il pepe. Si mette l’olio fino a ricoprire tutti i pezzi, livellandoli. Si cuoce a fuoco molto dolce per circa 4 ore, muovendo, di tanto in tanto il recipiente in senso rotatorio, senza mai mescolare.

I vicentini chiamano questo sistema di cottura “pipare”. Solo l’esperienza ci dirà quando il bacalà è cotto. Servirlo ben caldo con polenta in fetta (mai con polenta abbrustolita). Il bacalà è ottimo anche dopo 24 ore.

Cosa bere con questo piatto che è delicato di sapore ma, bisogna dirlo, è “unto” come pochi?

Ciascuno con i propri piatti beve i propri vini, almeno in via generale. Data, come dicevo, l’untuosità, i vini che si sposano con questo piatto devono avere elevata acidità ed in zona vi sono il Durello e il Vespaiolo. Si ha anche una certa linea di tendenza ad usare anche il Tocai Rosso dei Colli Berici (ora Tai), proprio perché anche questo è vino di relativa alta acidità.

Che il piatto abbia una innata bontà lo dice anche un poeta del luogo, Adolfo Giuriato, che così ha scritto:

“Ciò, co sto balsamo co sto bonbon “Anche le moneghe perde el timon Immaginatevi noi, che non abbiamo dato i voti…

Alfredo Pelle