C’è una pentola alta e stretta nel mio “office” di cucina. Per nove mesi l’anno occhieggia trascurata pur svettando su tutte le altre (tante, troppe…) casseruole, tegami, marmitte e pignatte. Pare messa lì per farmi memoria della breve ma felice stagione degli asparagi – quei virili ortaggi parenti stretti dei gigli – che gratificano il nostro palato solo tra aprile e maggio e che possono vantarsi di essere uno dei più antichi e venerati alimenti del Mediterraneo.
Prima di Natale ho ignorato senza dolore gli asparagi cileni che occhieggiavano dagli scaffali dal mio verduraio. Son riuscito a fare a meno degli acquosi e gonfi bianchi di Navarra coltivati in serra e ho resistito stoicamente all’offerta di quelli in scatola o surgelati con cui molti osti(ci) incolti approntano indegni risotti tutto l’anno. Mentre scrivo so che mi ci vorrà ancora qualche settimana prima di raccogliere i primi “lupàri”, i germogli di asparago selvatico (e asphàragos in greco significa appunto germoglio) mimetizzati nei cespugli spinosi, tra querce, roverelle, rive di fossi, scarpate di strade. Sono quelli che, tra Tigri e Eufrate, raccoglievano i primi agricoltori, gli stessi asparagi che gli Egizi legavano a mazzetti con i giunchi del Nilo quattromila anni fa e che hanno attraversato indenni la storia del genere umano. Per i romani erano le “corrudae”, utilizzate sia con finalità gastronomiche che a scopo farmacologico. A queste si riferisce il greco Teofrasto nella sua “Storia delle Piante” (III sec. a.C.) mentre Giovenale nelle sue “Satire” suggeriva di servirli assieme a “uova belle grosse”. Più articolata è la ricetta di Apicio che proponeva una “torta di asparagi” capace di non sfigurare ancor oggi sulle nostre tavole. Marziale elogiava la tenerezza degli asparagi di pineta del ravennate, gli stessi già citati da Plinio il Vecchio scandalizzato dalla “moda” di coltivarli: “La natura volle che gli asparagi fossero selvatici perché ciascuno potesse raccoglierne”. Per mantenere integre le qualità organolettiche del prezioso ortaggio anche gli antichi ne raccomandavano una cottura veloce, al punto che Svetonio per descrivere un’azione bellica di Augusto la definisce “celerius quam asparagi cocuntur”, cioè “più rapida del tempo di cottura degli asparagi”. Al di là dei pregi organolettici e dei valori nutrizionali, la fortuna gastronomica degli asparagi è in gran parte dovuta alla loro fama afrodisiaca. Una fama dovuta esclusivamente dalla loro forma fallica. Il che spiega perché i romani li dedicassero a Venere e i greci li intrecciassero per ricavarne corone nuziali. Anche nella medicina rinascimentale li si prescriveva come afrodisiaci: “mangiati caldi con un poco di sale e butiro provocano al coito” spiegava Castor Durante nel suo Herbario novo del 1585. Effettivamente il turione, soprattutto quello selvatico, contiene un gran numero di sostanze energetiche, vitamine (A, B, B2), aminoacidi e numerosi oligoelementi. Migliora anche le funzioni renali nelle persone che osservano una dieta povera di sali organici, cioè priva o assai scarsa di vegetali crudi; accelera la diuresi e rimuove i sedimenti, anche se, come notano tutti i naturalisti fin dall’antichità, conferisce all’urina un odore sgradevole (di mercaptano) che può essere mitigato seguendo il consiglio di Pellegrino Artusi alla fine dell’800 (in un’epoca in cui era normale la presenza del “vaso da notte” in ogni camera da letto): “il cattivo odore che producono alle urine si può convertire in grato olezzo versando nel pitale alcune gocce di trementina.” L’idea di rimettere al fuoco la mia pentola spilungona mi eccita. Tornerò a mangiare (rigorosamente con le mani) i “lupàri” dei boschi del viterbese ma anche i verdi di Altedo, quelli viola di Albenga, i verdi-amari di Montine, i saraceni di Vinchio e quelli smeraldini ed eccitanti di Badoere. Esauriti i colorati mi farò del bene con i bianchi colossali di Bassano, i più burrosi e dolci di Cimadolmo e quelli sottili e aromatici di Morgano. A casa mia non c’è storia per altri. Ne faccio risotti sublimi, quiches, sformati e tortini. Li divoro alla Bismark, in camicia, gratinati, alla parmigiana, con le uova sode o barzotte… Forse fuori stagione gli asparagi in scatola possono sembrarcomodi ma che senso hanno? I peggiori che ho assaggiato provenivano dalla Cina, ma tutti sono accomunati dall’inconfondibile aroma (per me un puzzo intollerabile) di glutammato con massicce dosi di sale, acido ascorbico e altre porcherie di cui non abbiamo sentito alcuna mancanza permigliaia di anni. Se proprio non si riesce ad evitarli, si abbia almeno la cura di lavarli in acqua fredda corrente, come si dovrebbe fare anche per piselli, fagioli, ceci e lenticchie in scatola. Ma anche così non si potrà che verificarne l’acquosa mediocrità. Qualche marca spagnola o cilena di tipo bianco-gigante è venduta in semplice salamoia e si distingue per una texture appena più soda ma nulla di più. Questi – e solo questi – possono trovare mediocre giustificazione in risotti, timballi o paste, previa veloce sbianchitura in acqua bollente non salata. Va un po’ meglio con gli asparagi surgelati: le moderne tecniche di surgelazione non massacrano il pregio organolettico né quello nutrizionale. Peccato che spesso si tratti di asparagi di basso prezzo e di qualità scadente. Insomma, chi ama la qualità e il gusto farebbe bene a lasciar perdere i surrogati e i simulacri e sforzarsi di essere paziente. Tanto la primavera, come certi politicanti di lungo corso, ritorna ogni anno.