Caratteristiche organolettiche e proprietà nutrizionali

La frittura è un procedimento di cottura in cui il fluido riscaldante è una sostanza grassa usata in quantità sufficiente a ricoprire l’alimento; i fritti includono varie tipologie di alimenti, quali carni, prodotti della pesca, ortaggi, frutta; si definiscono comunemente impanati i cibi da friggere cosparsi di pangrattato, sebbene la gamma delle panature sia oggi molto variegata (farine, uova, panko, frutti a guscio, ecc.). Sotto il profilo nutrizionale, l’elevato apporto calorico e la perdita di vitamine termolabili consigliano un consumo prudente, che consenta di apprezzare la buona tavola con sobrietà per non arrecare troppo danno alla salute, poiché il consumo abituale di cibi fritti è epidemiologicamente correlato ad una maggiore frequenza di incidenti cerebrovascolari. In taluni casi (bambini, epatopazienti, soggetti con problemi digestivi, ecc.) i fritti sono decisamente sconsigliabili sia perché il grasso impregna la matrice alimentare e ne condiziona la digeribilità, sia per le implicazioni tossicologiche correlabili alla natura del grasso e alle modalità di cottura. Le sostanze grasse sono formate principalmente da trigliceridi, frutto dell’unione di glicerolo (un alcool trivalente) e 3 acidi grassi; la loro separazione (idrolisi o inacidimento) avviene per effetto del calore e/o in presenza d’acqua ed è favorita dall’esposizione alla luce. Condizioni propizie all’idrolisi si trovano in burro, margarina, grassi animali e frutti oleosi a maturazione avanzata. Gli acidi grassi liberi conferiscono sapore pungente e sono più sensibili all’ossidazione. Con il calore il glicerolo subisce una disidratazione (termodegradazione) e si trasforma in acroleina, irritante per le mucose (occhi, bocca, apparato respiratorio, stomaco) e per il fegato. La temperatura al di sopra della quale si forma acroleina (punto di fumo) è specifica per ogni tipo di grasso: piuttosto elevata per olio di semi di arachide, palma ed extra vergine di oliva; bassa per burro e olio di semi di mais. Il punto di fumo viene influenzato dall’acidità libera del grasso (minore è l’acidità, maggiore risulta il punto di fumo) e dalla lunghezza e dal grado di insaturazione degli acidi grassi. Questi ultimi possono presentare, tra i vari atomi di carbonio, legami semplici e legami doppi: sono definiti saturi quando vi sono solo legami semplici; monoinsaturi se presentano un doppio legame; polinsaturi se ne contengono 2 o più. Il punto di fumo è minore se gli acidi grassi liberi sono insaturi e/o corti. Il burro (prevalenza di acidi grassi saturi corti) ad esempio, ha punto di fumo più basso della margarina (prevalenza di acidi grassi saturi lunghi); l’olio extra vergine di oliva (acidità bassa) ha punto di fumo più alto dell’olio di oliva (acidità più elevata). A carico degli acidi grassi insaturi (siano essi liberi o ancora legati al glicerolo) le alte temperature inducono inoltre reazioni di autossidazione (o perossidazione): l’ossigeno, attivato dalla luce e dal calore, reagisce con i doppi legami e provoca la formazione di radicali che propagano gli effetti a catena. Quando la loro concentrazione diviene elevata reazioni di rottura conducono alla formazione di aldeidi, alcoli secondari, chetoni e prodotti di polimerizzazione, con conseguente scadimento delle caratteristiche organolettiche (odori sgradevoli e colorazioni anomale). Originano inoltre termopolimeri ciclici (assorbibili ma tossici) e termopolimeri ad elevato peso molecolare (viscosi, non più assorbibili e metabolizzabili). L’autossidazione induce pertanto perdita di acidi grassi insaturi (tra cui anche quelli essenziali per l’organismo umano), scarsa digeribilità ed accumulo epatico. Il calore provoca anche, a carico dei doppi legami degli acidi grassi, una torsione spaziale (isomerizzazione) dall’abituale configurazione cis a quella trans; mentre gli isomeri cis sono presenti in natura, quelli trans originano in corso di trattamenti termici violenti e durante processi industriali di indurimento degli oli; essi presentano un lento metabolismo (causa di accumulo epatico), provocano effetti ipercolesterolemizzanti, sono correlati ad una maggiore incidenza di infarto ed ictus e si presume inducano azione cancerogena. Da quanto fin qui esposto, e contrariamente all’opinione corrente, si evince che i danni indotti dal calore non si limitano quindi ai grassi caratterizzati da un basso punto di fumo (come il burro e l’olio di oliva) ma si estendono anche a quelli ricchi di acidi grassi insaturi, che possono perossidare. È per tali ragioni che l’olio extra vergine di oliva (con punto di fumo abbastanza elevato, minori concentrazioni di polinsaturi, ricchezza in molecole protettrici antiossidanti, quali polifenoli e vitamina E) può essere ritenuto la migliore matrice riscaldante della frittura. Gli accorgimenti che consentono una buona frittura riguardano la scelta del grasso (che dovrebbe avere un’acidità iniziale molto bassa), la temperatura da adottare (sarebbe bene non superare i 180°C), la durata del riscaldamento e la protezione dalla luce. La presenza di particelle estranee (ad esempio briciole di pane), il rabbocco del grasso riscaldato con nuovo prodotto, la presenza nel cibo di acqua, sale e spezie sono ulteriori elementi che favoriscono i processi di decomposizione. In conclusione, il profilo nutrizionale globale, la scarsa digeribilità e la possibile nocività dovuta ad una scorretta metodologia di frittura, consigliano un consumo occasionale di fritti ed impanati, che consenta di dosare in maniera equilibrata il piacere gastronomico con corrette norme dietetiche