La nostra idea della cucina di Roma antica si basa spesso su mirabolanti racconti di fastosissime cene, come quella di Trimalcione nel Satyricon di Petronio o i proverbiali banchetti “luculliani” oppure sono tratte da scritti sull’agricoltura come quelli di Catone, Varrone, Columella o dal testo di scienze naturali di Plinio il Vecchio che offre numerose informazioni sulle pietanze e sul modo di prepararle, ma anche dagli scritti di medicina come il Corpus Medicorum Graecorum di Galeno e il De medicina di Celso dove sono presenti ricette importanti per le loro virtù dietetiche e medicamentali. L’opera più celebre che ha per argomento la cucina antica è il De re coquinaria (“Sull’arte culinaria”) di Apicio, ricco ghiottone vissuto durante il regno di Tiberio. Le ricette che si possono ricavare dagli autori antichi sono molto interessanti, ma si deve dire che solo alcuni piatti sono buoni, gustosi e di esecuzione relativamente semplice, mentre le complicate portate servite nelle cene fastose, come quella di Trimalcione, sono quasi sempre cibi molto elaborati che per essere confezionati richiedono attrezzature non comuni e personale con abilità straordinarie. Esse infatti sono irrealizzabili a meno che non si possegga un forno capace di arrostire un cinghiale o un maiale intero o non si sia in grado di disossare uno di questi animali senza romperne la pelle e magari lasciando attaccate tutte le carni. In realtà, passando in rassegna le ricette romane e grazie al lavoro di diversi studiosi che si sono cimentati nella sperimentazione di alcuni piatti, si è notato che quelli che, a prima vista, possono sembrare veramente stravaganti, somigliano molto a pietanze della nostra tradizione, introducendo ad esempio il prezzemolo, l’aglio, il sedano e le acciughe al posto di ingredienti oggi non più reperibili. Le scoperte archeologiche, soprattutto quelle del territorio vesuviano, hanno messo in luce una realtà ben diversa da quella che appare nella cena di Trimalcione. La gente comune, infatti, non si nutriva di ghiri, struzzi o faraone, ma di pane, formaggio, insalate e zuppe di legumi e cipolle, cucinate e servite in maniera semplice con vasellame di terracotta e tirava fuori il “servizio buono” solo nelle occasioni speciali. Le scoperte pompeiane sono un’inesauribile fonte di informazioni anche per quanto riguarda gli utensili da cucina e i sistemi di cottura dei cibi. Oltre a fornelli portatili e a scaldavivande, numerose sono le cucine in muratura delle quali certamente l’esempio più bello e meglio conservato è quello della Casa dei Vettii a Pompei dove, sul focolare, coperto di brace e cenere, erano appoggiati treppiedi sui quali sono state trovate pentole e padelle di varie forme pronte all’uso. Esistevano quindi padelle per friggere con lungo manico, tonde, rettangolari o quadrate, esattamente identiche a quelle attuali, e altre per cuocere le uova. Non mancavano tutti gli utensili per preparare i cibi: coltelli, mezzelune, taglieri, tritatutto, mestoli, forchettoni, grattugie, schiaccianoci, mortai, colini, imbuti. Una straordinaria campionatura di tali utensili è oggi esposta nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. I metodi di cottura erano numerosi e i cibi potevano essere lessati, cotti al vapore, stufati, arrostiti o fritti. A proposito delle fritture è necessaria una riflessione sul significato del verbo frigere che in latino non ha propriamente lo stesso significato dell’italiano. Infatti, leggendo le ricette di Apicio, sembrerebbe che i romani friggessero ceci, lenticchie, fave, ma anche orzo, fronde di cipresso e addirittura il sale! È probabile quindi che in molti casi il verbo indicasse una sorta di tostatura e non una vera e propria frittura il cui utilizzo è comunque ampiamente documentato. I Romani friggevano pesce, carne e dolci utilizzando non solo grassi come l’olio o lo strutto, ma spesso mescolandoli anche con il garum (una salsa di interiora di pesce e pesce salato molto simile alla celebre colatura di alici di Cetara) e vino, oppure con garum, acqua e aceto, o anche con il garum solo o con il miele cotto. Secondo studi recenti, sembrerebbe che ciò che per i romani era fritto doveva “saltare su” ed “emettere suono”, intendendo così in realtà tutto ciò che era cotto ad alta temperatura. Quando il verbo frigere è inteso nel senso di tostare, indica una cottura secca che prosciuga l’umidità dei cibi ad alta temperatura, “un arrosto” di ceci, di foglie di cipresso, di orzo, di sale. Quando invece si tratta di friggere in liquidi di cottura ci si avvicina alla lessatura: si immerge in liquido (anche se non solo acqua) caldissimo, ma non si conserva il liquido della cottura. Appare quindi chiaro che in molti casi le fritture dei romani erano lontane dalle nostre. La croccantezza e la leggerezza, condizioni necessarie per un “buon fritto moderno”, non erano certamente caratteristiche indispensabili per i romani tanto è vero che in Apicio alcuni fritti nel suo celebre ricettario sono ricoperti e accompagnati da brodo o da liquidi vari, in modo da renderli più molli e ancora più umidi. Apicio per conservare fresca una frittura, consiglia di cospargerla di aceto caldo subito dopo averla tolta dalla padella secondo una ricetta molto diffusa in Italia meridionale che prende il nome di “scapece” dal latino ex Apicio, “da Apicio”. Oggi molte nostre verdure, come zucchine, melanzane, carote si gustano condite in questo modo. L’abitudine di friggere il pesce per i romani era molto diffusa e si importavano dalla Grecia, in particolar modo dall’isola di Egina, tegami appositi di una ceramica pesante e poco raffinata. I greci friggevano anche piccoli pani ripieni di formaggio, antenati delle moderne Tiropite e i romani anche i dolci tra i quali alcuni ripieni ed altri simili alle nostre chiacchiere. Queste ultime discendono da dolci di farro e miele che venivano fritti nella sugna e preparati in grande quantità, perché l’obiettivo era quello di farli durare per tutto il periodo dei Saturnali (feste religiose romane) e venivano preparati e distribuiti alla folla da donne anziane coronate di edera. Per ciò che riguarda l’impanatura si deve considerare che il termine moderno non è perfettamente riconoscibile in una pratica antica. In età romana, infatti, veniva utilizzata una sorta di impanatura soprattutto per poter mangiare pesci non proprio freschi e toglierne in parte l’odore penetrante. Poiché uova e farina erano costose, il pesce si passava nella semola di grano duro e si buttava nello strutto. Quella sorta di panatura impediva l’ingresso dei grassi e regalava un fritto asciutto. Il più noto era il lagitus, un pesce di lago, che veniva impanato e poi fritto. Numerose sono le ricette antiche di fritture che ancora oggi si potrebbero realizzare. Di seguito ne riportiamo una selezione relativa ai dolci:

Dulcia domestica et melcae (dolci casalinghi con miele)

Prendere dei datteri snocciolati; farcirli di noci, di pinoli o di pepe tritato. Salarli e friggerli nel miele. (Apicio, De re coquinaria, VII 13, 1) Togli la crosta al pane di grano tenero e rompilo grossolanamente. Metti a mollo nel latte e fai friggere con l’olio. Spalma di miele e servi. (Apicio, De re coquinaria, VII 13, 3)

Globulos (Globi)

Preparerai così i “globi”. Mescolerai in parti uguali formaggio e farina di farro. Con questo impasto farai tutti i “globi” che vuoi. Verserai dello strutto in una padella calda. Ne friggerai uno o due per volta, e li rigirerai con due palette: quando saranno fritti li toglierai, li spalmerai di miele, ci gratterai sopra del papavero. Li servirai così. (Catone, De agricultura, LXXIII)

Encytum (Frittella)

Preparerai l’encytum allo stesso modo dei globi, ma ci si dovrà fornire di un imbuto largo. Con questo verserai l’impasto nello strutto bollente. Darai ad esso la forma di spirale, alla perfezione. Lo rigirerai con due palette e lo tirerai su. Come i “globi”, lo spalmerai di miele e lo farai colorare quando non è troppo caldo. Li servirai con miele o con vino melato. (Catone, De agricultura, LXXIX)

Probabilmente, un antico romano, assaggiando una riproduzione moderna di piatti antichi, avrebbe la stessa reazione che ci provoca mangiare cucina italiana all’estero. In realtà chi si è cimentato nell’esecuzione di ricette del De re coquinaria, che, a prima vista, possono sembrare veramente stravaganti, finisce per accorgersi che una vivanda intrigante e complicata rassomiglia molto a piatti che ben conosce.

a cura di Rosaria Ciardiello