Nella bassa valle del fiume Giordano, 13 km a nord di Gerico, una missione archeologica israeliana rinvenne nel 2005 alcuni fichi “mummificati”. Si tratta di una condizione estrema di essiccazione, grazie alla quale delicati tessuti vegetali permanendo in ambiente arido e clima secco, si disidratano completamente e iniziano un parziale processo di fossilizzazione che mantiene una struttura cellulare riconoscibile. Sottoposti a datazione col radiocarbonio quei fichi dichiararono un’antichità di circa 11.400 anni. La notizia di per sé non era particolarmente sensazionale poiché esemplari anche molto più antichi di frutti fossilizzati in particolari condizioni ambientali sono stati rinvenuti in varie parti del mondo. Tuttavia, i paleobotanici restarono senza parole quando si accorsero che non si trovavano di fronte a fichi selvatici ma a frutti provenienti da alberi domesticati, ottenuti selezionando e piantando varietà “partenocarpiche” cioè capaci di riprodursi senza impollinazione. Dunque, gli agricoltori della Mezzaluna Fertile coltivavano alberi da frutto ben duemila anni prima della Rivoluzione Neolitica che si pensava iniziata con la coltivazione di grano, orzo, altri cereali e legumi. Con le migrazioni umane e gli scambi, l’albero del fico domestico (Fico mediterraneo o Ficus carica ovvero originario dalla Caria, regione storica dell’Asia Minore) si diffuse – forse già prima del IV millennio – presso le civiltà agricole della Palestina e dell’Egitto (dove divenne sicomòro), ridiscese la valle dell’Indo (dove già cresceva la varietà tropicale palmata con frutti di minor dimensione e pregio) e trovò condizioni estremamente favorevoli in tutto il bacino del Mediterraneo. Sia ben chiaro, il carica è solo una delle quasi ottocento specie del genere Ficus ma è sicuramente la più apprezzata, diffusa e consumata al mondo. Tra tutti i prodotti che acquistiamo dal fruttivendolo, il fico ha una serie di particolarità poco note che lo rendono originale, curioso e talvolta bizzarro. Innanzitutto, non è né un frutto né un fiore ma un “siconio” cioè un insieme di fiori – gli “acheni” che noi percepiamo come semini che si incastrano tra i denti – maturati all’interno di un baccello che per noi è la buccia. In natura nasce solo sugli alberi di genere femminile, cioè quelli che ospitano fiori con l’ovario fertile, mentre il fico “maschio” (caprifico), che produce frutti piccoli e non commestibili, contribuisce alla sua fecondazione col polline prodotto dai suoi fiori. Che strano, un “maschio” che fa i fiori!? Diciamo che non è del tutto maschio perché possiede anche un apparato femminile, un ovario imperfetto, sterile, che d’inverno abortisce lasciando spazio alle larve deposte al suo interno dalla “vespa del fico” (Blastophaga psenes). La vita del fico dipende in maniera indissolubile (e reciproca) da questo minuscolo insetto, poiché il polline maschile deve essere letteralmente trasportato dentro i fiori femminili; così le vespe femmine, una volta mature, in primavera, escono dall’ovario sterile ricoperte di polline maschile e volano verso il fico-vero (spesso molto distante) sperando di trovare un ovario vuoto in cui deporre le uova. Sfortuna vuole che negli ovari dei fiori femminili ci sia già il pieno di ovuli fertili, così l’ape abbandona sconsolata quei fiori ma prima lascia cadere i granelli di polline che feconderanno gli ovuli. Va peggio alle vespe maschio che, non possedendo ali, restano intrappolate negli ovari del caprifico, dove un enzima (la ficina), le t ra sfor merà in proteine utili alla pianta. Questo fatto, assoluta mente naturale e biologico, ha fatto sì che alcuni vegani integralisti abbiano escluso i fichi dalla loro alimentazione… A questa reciproca simbiosi tra Ficus carica e la sua vespa – iniziata secondo i botanici 80 milioni di anni fa – si deve la grande qualità nutrizionale del fico mediterraneo, il suo gusto incomparabilmente dolce e la naturale attitudine all’essiccazione, tutte qualità da cui trassero vantaggio insetti, scimmie e quasi tutti gli animali arboricoli, incluso il genere Homo fin dal suo esordio sul Pianeta. I suoi frutti energetici sono stati testimoni dello sviluppo di tutte civiltà mediterranee, dalla Mesopotamia all’Egitto, dalla Grecia al Marocco, dalla Turchia alla Spagna. I faraoni si facevano seppellire con una buona scorta di fichi secchi con cui dare conforto alla propria anima nel viaggio verso l’oltretomba dove, all’ombra di un fico, li attendeva la dea-madre Hator. Il re Nabucodonosor II riempì di piante di fico i giardini pensili di Babilonia mentre Salomone, sovrano di Israele, esaltava l’albero e i suoi frutti con inni di gioia. Nel mondo greco Ficus carica era pianta dedicata a Dioniso, il dio del rinnovamento, e quando veniva fondata una nuova città se ne piantava uno tra l’agorà e il foro ad indicare il luogo di riunione degli anziani. Ritenuto il “frutto dei filosofi” (Platone ne era ghiottissimo) era suggerito da Galeno come alimento indispensabile agli atleti prima delle gare sportive. Varietà di Ficus idonee ai climi tropicali si sono diffuse nell’emisfero australe, come Ficus citrifolia detto anche “fico strangolatore”, che nasce nelle cavità degli alberi e sviluppa radici aeree con cui avvolge i rami della pianta che lo ospita fino a creare una maglia filamentosa pendente verso il suolo. Quando l’esploratore portoghese Pedro a Campos nel 1536 scoprì l’isola di Barbados nei Caraibi orientali e dovette dargli un nome, ebbe l’ispirazione proprio da quegli alberi “barbuti”. Alla famiglia Ficus appartiene anche l’albero simbolo del Buddhismo, il grande e vetusto Ficus religiosa (detto anche Pipal o A vattha) sotto al quale nel 530 a.C. avvenne il risveglio del Buddha; si trova a Bodh Gaya, nello stato indiano del Bihar ed è meta costante di pellegrinaggi e cerimonie. Sempre in India, nell’Uttar Pradesh un antichissimo Ficus benghalensis grande quanto un bosco è ritenuto immortale: sotto le sue fronde, secondo Teofrasto, trovò ristoro Alessandro Magno con le sue truppe 25 secoli fa e ancora nel 1997 godettero della sua ombra oltre 20 mila persone.