– Elementare, Watson! – esclamò Vilfredo Arguti, studente fuori corso di giurisprudenza, rivolto al suo cane. Watson, un Basset Hound prossimo alla pensione, l’adocchiò stancamente, accennò un vago dondolio della coda e riprese a dormire, spaparanzato sul divano letto che, di giorno, era suo territorio esclusivo. – Ma non capisci Watson? – fece il giovane, balzando dall’unica sedia presente nella stanza che fungeva da tutto, escluso il bagno, per precipitarsi verso il suo compagno di camera. Alzò la lunga orecchia del cane e vi parlò dentro ad alta voce perché Watson, con l’età, era diventato decisamente sordastro. – Tu sei arrabbiato con me, non negarlo, perché son due giorni che vomiti e scacazzi una poltiglia puzzolente per tutta la casa che mi costringe a tenere aperte le finestre in pieno inverno, ma non è colpa mia. Io credevo di far bene. E’ stata tutta colpa del sottovuoto.
E, così dicendo, attraverso i quattro metri (lato lungo) del suo appartamento e afferrò un barattolo di vetro che presentava ancora dei resti di cibo. Lo avvicino al muso del cane che storse il naso schifato. – E’ stato questo che ti ha fatto male, caro Watson. Che ne sapevo io che, di tutti i barattoli di ragù che mia nonna aveva preparato per me, ho aperto per te proprio quello che non era stato trattato come si deve. L’ho scoperto solo oggi frugando in Internet: per sapere se un vasetto è stato sigillato bene, deve avere il coperchio con una fossettina al centro, resistere all’apertura e fare “pouf” quando il coperchio cede. Così il ragù è andato a male ma anche tu, Watson, te lo sei pappato come se fosse una leccornia. Come dici? Che ero io che dovevo mangiarmelo? Ma se pensavo di farti un regalo. Ci pensi: il ragù di nonna Matilde. Vilfredo Arguti lasciò cadere il lungo orecchio inerte di Watson. Poi disse sottovoce: – Watson, mi perdoni?
Il cane accennò a uno scodinzolio e gli leccò la mano.