Prendo un foie gras freschissimo di anatra, lo taglio a pezzetti e nel mentre elimino le vene interne e le pellicine esterne. Scarto il pensiero dell’anatra sovralimentata a forza con un tubo metallico di trenta centimetri infilato attraverso la gola direttamente nello stomaco. Metto a bagno i pezzi irregolari di foie in abbondante latte di capra e lascio riposare una notte in frigo. Riposo una notte anch’io. Rimuovo dal dormiveglia la teoria che il bagno di latte serva a purificare quel fegato malato ipertrofico strappato alla bestia agonizzante. L’indomani scolo i pezzi di foie e li asciugo ben bene con della carta assorbente. Condisco con sale marino, indifferenza, pepe bianco macinato al momento, zucchero di canna bianco, rimorso e Armagnac. Lascio marinare per almeno 2 ore. Nell’attesa conservo l’inquietudine provando a immaginarmi come sta quell’essere vivente che conosce solo la gabbia, la tortura, le lesioni, il dolore, la morte senza senso. Immergo le mani in acqua e ghiaccio per raffreddarle bene e con esse compatto e creo una specie di salame di foie gras. Immergo la coscienza in pensieri di ghiaccio per abbattere la convinzione di essere un carnefice. Avvolgo tutto in foglie di fico appena raccolte e cuocio sottovuoto a 67ºC per 25 minuti almeno. Amo cucinare il foie gras. E mi sento male. Poi assaggio un pezzo di mi-cuit su di una fetta di pan brioche appena tostato e mi arrabbio con me stesso perché non mi ricordo mai dov’è la confettura di fichi. E nemmeno dove si va a nascondere ogni volta il dolore.