Scorrendo la grande messe di letteratura antica relativa alle carni suine e agli insaccati, non si può non notare come tutti gli autori pongano costantemente l’accento sul miglior modo per allevare i maiali: dall’alimentazione alle cautele per un ingrasso omogeneo e progressivo, dall’esclusione di certi capi dalla concia e dalla salagione (ad esempio il verro) fino alla stagione più propizia alla macellazione e ai mesi più indicati per farne ottimi salumi e insaccati. Nell’area casentinese, si producono da secoli prosciutti di infinita finezza e gustosità. L’intera zona collinare racchiusa tra il Pratomagno e l’Appennino pare fatta apposta per allevare maiali pesanti allo stato brado. Estinta negli anni ’20 la razza “Cappuccia d’Anghiari”, su questi rilievi e in prossimità delle foreste, oggi si allevano (sia detto in forma riflessiva, cioè: allevano se stessi) ben cinque delle razze suine di più alta vocazione norcina: il maiale nero siciliano, calabrese e casertano oltre alle storiche e autoctone mora romagnola e cinta toscana o senese. Di queste razze la più “modaiola”, è forse proprio quella di cinta senese che a me (e a pochi altri) pare la meno indicata a farne salumi e prosciutti; la preferisco in forma di arista, costina, lombo, talvolta come testina in cassetta ma non mi soddisfa né insaccata né conciata. La punta – peraltro gradevole e modesta – di selvatico, tende ad aumentare con la salatura e la scarsità di grasso fa sì che molto dell’aroma proprio di un grande Prosciutto o di un salame d’artista resti inespressa, spesso involgarita dagli stessi cenni di rancido che tolgono finezza a molti “pata-negra” iberici. Ma è pur sempre questione di gusti e a tavola, come a letto, ognuno è libero di cercare il proprio piacere dove e come meglio gli aggrada. Fattimi nemici gli estimatori di salumi di cinta senese, torno alla coscia. Gli allevatori più accorti sanno bene che per ottenere un grande Prosciutto, il maiale non può vivere costretto in stalle o relegato in recinti ad alta densità. Lo stato brado o semibrado, favorisce lo sviluppo della muscolatura della coscia, il cui gusto e profumo è funzione diretta della qualità dei tuberi, della frutta di stagione, delle castagne e delle ghiande di cui si nutre, secondo natura, un maiale libero, sano e felice. La montagna casentinese aggiunge a tutto ciò anche le migliori condizioni ambientali per la lavorazione delle carni. A cominciare dalle basse temperature invernali che agevolano le lavorazioni del fresco ed evitano le fermentazioni batteriche. Alle quote più alte si trovano le isole climatiche più felici per stagionare lentamente i prosciutti fino a 18, 24 o addirittura 36 e più mesi, senza che si manifestino perniciosi irrancidimenti. E poi l’aria! Quella che in questi interminabili mesi il Prosciutto respira. Qui è sempre asciutta e dolce. Viene dal mare, s’infila tra Elba e Capraia, prende fiato nel golfo di Follonica e s’infila nella vallata dell’Ombrone, dove si lucida sulle Colline Metallifere e gli ultimi contrafforti del Chianti prima di pettinarsi con gli aghi delle pinete, perdendo il salmastro e acquistando il fresco aroma del bosco. Giunta in Valdarno, indugia sui pascoli del Pratomagno, lascia sull’erba ogni traccia di salsedine e s’immerge nelle foreste casentinesi a rubarne il fresco e il profumo dei castagneti. È l’aria che lo rende profumato, che lo asciuga con tenerezza, che lo trasforma in una seducente promessa da godere prima con gli occhi, poi con il naso e infine col palato.

Prosciutto è parola che secondo Gianni Brera, “ha il suono dell’affettatrice”. Opinione di lombardo, che in Toscana non fa testo. Perché il Prosciutto del Casentino reclama, anzi, esige d’essere tagliato a coltello con mano ferma, decisa e generosa nello spessore. Non è un caso che la tradizione dei “ferri da taglio” alberghi negli stessi territori di alcuni tra i migliori prosciutti. Se a Sauris e San Daniele in Friuli la lavorazione delle cosce suine vanta una storia secolare, Maniago, a un tiro di schioppo, produce lame di rinomanza internazionale. Non è diverso il legame tra coltello e Prosciutto in Sardegna, dove Pattada mette lo strumento e Villagrande Strisaili fornisce la materia da tagliare. Lo straordinario Prosciutto del Casentino vuole/ vorrebbe una lama di Scarperia, affilata e sottile per ricavarne cenci mai trasparenti, umidi e densi, guarniti di una generosa coperta di dolcissimo grasso. E per essere rifilato ed eventualmente disossato, il coscio dei maiali casentinesi reclama uno “spadino” mugellano, puntuto e arrotato a pietra ed acqua. Il taglio del Prosciutto è arte vera e propria, a cui nel Cinquecento si dedicavano i cavalieri più avvezzi alla spada. Sulla sua tecnica si son dette e sentite mille teorie e millanta storie, alcune fantasiose, altre d’ispirazione puramente circense… ma la maggior parte sono corrette e irreprensibili. Quel ch’è certo però, è che pochi han dedicato tempo e inchiostro a perorare una causa fondamentale: l’orientamento del taglio del Prosciutto. Proviamo a pensare: accetteremmo mai che il nostro macellaio ci sezioni un filetto o una fesa di manzo nel senso della lunghezza? Lo sanno tutti che le carni tagliate in senso longitudinale alla fibra sono dure, stoppose e immangiabili. E allora perché il Prosciutto tagliato a coltello dev’essere immancabilmente tagliato “per lungo”? Potrà anch’essere comodo (per chi lo vende) affettarlo seguendo la direzione dell’osso ma così se ne distrugge la struttura e se ne impoverisce il gusto e la consistenza. In questo senso l’affermazione del grande Giuanìn Brera è corretta, poiché con l’affettatrice il Prosciutto viene tagliato correttamente, sezionando la fibra e non assecondandola. A mano e con l’intralcio dell’osso è più difficile e scomodo ricavare fette precise, regolari ma con un po’ di esperienza e una certa dose di manualità ci si può riuscire. Non come un violino da spalla dunque, ma come una viola da gamba, ch’è anche la sede naturale da cui il Prosciutto si genera. Un grande Prosciutto – che sia del Casentino, di Sauris, di Bassiano o dei Nebrodi – si transustanzia in archetipo del gusto solo sotto una lama usata con senno e rispetto. Lo stesso rispetto che è dovuto al consumatore, alla natura e alla tradizione.

Sergio G. Grasso