In un articolo online del 15 gennaio scorso, della testata giornalistica cookmagazine.it, si dà risalto alla “puzza”, riscattando il suo significato da odore sgradevole e nauseabondo a dispensa di sogni e poesia… “Addio al vino naturale, adesso è l’ora del naturalino: così finisce un grande sogno. Quelli anziani come me se lo ricordano quanto è bello il vino naturale. Etichette coloratissime, volatili così alte che sembrano voler arrivare al naso di Dio, bevevamo vini che i poliziotti della qualità dicevano puzzare, ma che erano facilitatori di baci, di sogni e di poesia. Erano gli anni di Obama, le cose mutanti e ibride andavano di moda e sembrava ci fosse spazio per le cose differenti. La Pandemia poteva essere un’occasione per uno scatto di lato, fuori dai social, dalle corporations, dalle marchette, dal lavoro come era inteso e da un sacco di altre robe così. Beh, diciamo che le cose sono andate diversamente e a trionfare è stato il “naturalino”, appunto, il quasi naturale. Si sono perse di vista l’agricoltura e la terra e tutti i liquidi che sono versati nel bicchiere sono il trionfo del non rischio, del ben fatto. A volte con una leggera carbonica, una leggera volatile e una strizzata d’occhio al mondo di prima. Vino naturale è diventata una categoria merceologica, un capitolo nei cataloghi patinati delle grandi aziende di distribuzione. Si dice che sia diventato di moda, ma in realtà a diventare di moda non è il vino naturale, ma la sua versione normalizzata, depotenziata, bellina e filtrata. Insomma, il produttore di “naturalino” fa quello che può. Fa i vini nel modo più naturale possibile. I vini naturali sono sempre più puliti, più ben fatti, piacciono ai critici di mezza età con problemi di prostata, alle associazioni ufficiali di sommelier, stanno nei wine bar trendy. I “naturalini” piacciono a tutti, sono tecnicamente perfetti, nessuno parla più di sostenibilità ambientale, di pratiche agricole virtuose, di fare sistema in un territorio. Si parla solo di ciò che c’è nel bicchiere, di pulizia, di piacevolezza. Sono quasi tutti vini carini ma non c’è più niente di veramente diverso. Forse sono io che sono invecchiato, o forse boh, la sensazione è che ci si diverta sempre meno e che oltre alle puzze strane, alle volatili e ai residui di quattro dita di fondo dei PetNat si sia perso molto altro.” Partiamo col dire che noi il vino lo amiamo in maniera viscerale, lo studiamo, frequentiamo produttori e cantine sparse nelle zone più vocate d’Italia e d’Europa, e che quando leggiamo cose di questo tipo siamo dispiaciuti. Si parla sempre di vino naturale senza saperne realmente tanto, si scrivono cose senza cognizione di causa. Sono tantissimi i produttori che lavorano in maniera seria, sostenibile, nel rispetto del terroir, senza uso di chimica, lavorando in vigna e assecondando il processo di vinificazione in cantina senza artefizi. Il vino è pulizia, specchio del territorio e del vitigno che ne fa parte, dell’annata, della mano del produttore, che ne è custode nella sua immensa maestria. Il vino deve essere buono e se vogliamo far passare una puzza, la volatile eccessiva, quattro dita di fondi, e altri difetti per valore aggiunto in onore di un prodotto fatto in modo genuino, beh non sono d’accordo per niente. Ammetto che i primi approcci al vino naturale erano di questo genere, vini che puzzavano ma che sventolavano alta la bandiera del “no solfiti, no chimica “, ma rappresenta l’inizio di un percorso che poi ci ha portato a conoscere e scoprire col tempo il nostro palato, la differenza tra chi il vino lo sa fare e chi no, chi lavora in maniera seria e produce vini che emozionano e chi produce vino che dietro a quelle puzzette cela incapacità ed inesperienza. I pesci d’acqua dolce sono genericamente più grassi di quelli di mare e non hanno sapidità, sono adatti a cotture alla griglia o bolliti. Mi torna subito in mente un pranzo recente in cui mangiammo filetti di trota salmonata con panatura aromatica, semplicemente cotti alla brace e accompagnati da un Lagrein Dunkel rosè di Elda ed Heinrich Mayr cantina Nusserhof di Bolzano. Vigne di 40 anni, senza fertilizzanti da oltre 35, fermentazione in acciaio con solo lieviti indigeni, affinamento 10 mesi sulle fecce fini, fresco, intenso, a tratti cremoso, di grande piacevolezza ma di grande struttura. Non mi stancherò mai di ripetere: beviamo naturale ma beviamo vino buono!