Detestavo quel disgustoso olio di fegato di merluzzo, ma mia madre non sentiva ragioni, mi stringeva il naso e. giù l’intero cucchiaio, poi una zolletta di zucchero: premio o indennizzo? È consolante sapere che ora è disponibile anche in capsule. Ero certo che il merluzzo ed io non saremmo mai andati d’accordo, ma non fu così. Lo scoprii saporitissimo nella bou- rride, preparata con passione e maestria dall’indimenticato Jean, un eclettico bretone che scriveva, dipingeva, ma soprattutto viveva in quello stupendo angolo della Vandea che è l’Ile de Rè. Dal portico della sua casa, bassa, di pietra viva, lo sguardo spaziava lontano, sull’ Atlantico freddo e superbo, o vicino, sulle mura di La Rochelle, città- simbolo degli Ugonotti, evocatrice di guerre di religione nel tardo ‘500, con un’italiana sul trono di Francia: Caterina dè Medici. Scendendo lungo la costa atlantica, in terra di Spagna, nell’orgogliosa regione cantabrica, il merluzzo mi appagò in una proposta di quella saporosa cucina: merluza a la sidra. Il sidro: vino di mele. Ma fu anche bacalao a portuguesa, nelle notti magiche al Bairro Alto di Lisbona: tavoli all’aperto, vino verde branco, struggenti Fado e atmosfere già care a Fernando Pessoa. Lessi poi coinvolgenti storie, quasi racconti di avventure, di vichinghi che seccavano al vento del grande nord quel pesce, scorta preziosa per il loro lungo andare per i mari. I portoghesi invece lo sventravano, appena pescato, e lo conservavano nei barili, ricoperto di sale. Piero Querini, capitano da mar della Serenissima, sessantanni prima che Colombo scoprisse l’America, fece naufragio sulle coste delle Isole Lofoten e vide quei lunghi pesci, appesi a seccare su tralicci di legno. Ritornò in terra veneta portando con sé quello sconosciuto “pesce-bastone”, letterale e brutta traduzione dal norvegese stokfisk. La campagna di marketing per il lancio del nuovo prodotto sul mercato va forse attribuita al Concilio di Trento che, nel 1563, con rigoroso monito sull’obbligo del mangiare di magro nei giorni comandati, indusse i poveretti a cercare, e trovare, la soluzione in quel pesce essiccato. Ecco dunque rispettato il precetto, senza spendere in pesce fresco i quattrini che di certo non abbondavano. Cibo da poveri dunque, ma il tempo è galantuomo e adesso. altro che da poveri. Riguardo al nostro Nord-Est e al suo sviluppo, ora in fase riflessiva, è stata coniata la gradevole espressione: “In 50 anni si è passati dalla fame alla dieta”. Di questo, economicamente parlando, il baccalà ne è icona. La parlata veneta, attingendo alle cugine portoghese e spagnola, ha modellato “baccalà”, con naturale caduta dell’accento sull’ultima vocale, più dolce e musicale di “stoccafisso”. Vicenza lo ama davvero quel merluzzo, anzi baccalà, al punto da avere costituito un “Confraternita”, che ha accolto e accoglie nomi illustri.

Renato Ganeo