Il mangiar pesce crudo non è mangiare crudele. Anzi, al contrario: è difficile trovare una preparazione più rispettosa, più fedele ed accondiscendente del sapore primario del mare. Vi è un rispetto totale della materia prima senza alcuna sopraffazione, senza nessun tentativo di modificare ciò che arriva in cucina dal mare, nel più breve tempo possibile (che, vedremo, è un poco più lungo di quanto non si ritenga, per rispetto delle regole igieniche). La pratica del crudo ci avvicina a sapori incorrotti: un carpaccio di pesce è un filo diretto con gusti dimenticati che, da qualche anno, artigiani sapienti e cuochi sensibili tendono a far divenire una battaglia di civiltà alimentare. Gli abbattitori di temperatura surgelano istantaneamente il pesce nella sua perfetta freschezza, uccidendo il parassita più temuto, l’anisakis, senza intaccare consistenza e fragranza che il fresco ha. Così la carne di animali cresciuti senza ormoni e senza antibiotici diviene gioia per il palato. Tartare di tonno, alici marinate, insalate di gamberetti sono entrate nei ristoranti con il loro gusto “nature” ed accettano solo profumi di frutti o di verdure ben conosciute. E’ perfetta la marinatura di scampi con l’arancia e le seppioline si abbinano e si profumano con sottili anelli di cipolla. Difficile trovare miglior abbinamento della tartare di pesce spada con il pepe rosa che ha molto profumo e pochissima piccantezza. Ed il sushi, esaltazione nipponica del crudo di pesce (da noi entrato nella cucina orientale, servita in Italia, con tale potenza da aver generato catene di locali che lo propongono, senza considerare che ormai nei banchi frigo dei supermercati è normale trovare confezioni di sushi, negazione assoluta della natura giapponese della preparazione, prodotto divenuto industriale e, come tale, un lontano ricordo dell’originale), il sushi, dicevo, sarebbe inconcepibile non abbinarlo allo zenzero nella marinatura. Ammettiamolo, il pesce crudo ha il suo fascino. Perché deve essere perfetto, freschissimo, tagliato in modo adeguato. Non viene “contaminato” dall’intervento del cuoco. Il pesce crudo sa di mare, è seducente di per sé, perché ha il profumo delicato e, sopratutto, non “sa di pesce” (perchè se così fosse sarebbe da buttare via). E questo mangiare ci fa sentire in salute, ci fa sentire sani, è un mangiare da uomo primitivo, da asceta orientale. Il crudo ha questa fama di essenziale che ci fa sentire bene. Detto tutto questo, è innegabile che vi è una moda, una tendenza che fa sì che tutti i ristoranti non ti neghino una tartare di tonno o di spada ed i sushi bar si sono diffusi a vista d’occhio. Abbiamo perso il senso della misura ed abbiamo dimenticato che il nostro stile, quello del Mediterraneo, non è mai stato quello del pesce crudo. Al massimo ci rivolgevamo a certe cotture leggere, certe marinature nell’aceto, nel limone. Così in Calabria si faceva il crudo di neonata, l’equivalente dei “gianchetti” o bianchetti. Questo novellame di alici veniva sciacquato in acqua salata, asciugato e condito con un’emulsione di olio e limone. Mezz’ora di riposo al fresco, una piccola rifinitura con un poco di prezzemolo tritato ed il piatto era pronto ed emanava tutta la sua naturale freschezza. Era cucina di gente che rispettava il mare ma che combatteva la propria fame ed il futuro incerto e, di conseguenza, tendeva a preservare il pescato quanto più fosse stato possibile. Era lo stile di gente che cucinava e perciò il pesce lo friggeva, lo grigliava, lo faceva in umido, lo infornava, lo conservava sotto sale. E le ricette erano il frutto di una sapienza popolare formatasi nei secoli. Per contro il crudo è fatto da operatori che analizzano il prodotto al mercato e poi affilano i coltelli come un chirurgo i suoi ferri. Manca l’intingolo che bolle, il profumo che si spande, il profumo del forno che cuoce con erbe fresche. Di più: il nostro stile è quello che ci vede a tavola con un bicchiere di vino ad accompagnare il piatto e il vino, in generale, non sembra accoppiarsi con perfezione al pesce che si presenta al commensale con grande purezza di sapori, una specie di perfezione dell’eccellenza. Praticamente senza che il talento del cuoco si manifesti. Allora accettiamo con simpatia questo modo di mangiare il pesce, senza però farlo diventare la massima espressione della capacità del cuoco. Per giudicare un cuoco nelle sue capacità dobbiamo vederlo davanti al fuoco mentre lavora con padelle, casseruole, griglie e quant’altro. Deve mettere nel suo lavoro il talento, che è l’espressione più grande che possa far arrivare nel piatto: un insieme di materie che si uniscono in un’armonia di sapori, in un’eleganza di consistenze, in una bellezza di presentazione. Insomma guardiamo nella cucina se vi è quel “grano di sale”che rende tutto più saporito, anche intellettualmente.

Alfredo Pelle