Tra modernità e tradizione

Erano cibo di strada i folpetti che mi fermavo a gustare al ponte di Cadoneghe quando scendevo a Padova all’università? O forse la porchetta che trovai dalle parti di Passo Corese, lungo la vecchia Via Salaria verso Roma? O magari il panino col lampredotto durante quell’indimenticabile giro in Toscana con la moto nuova? Adesso dico certamente sì, ma allora non lo sapevo, non ci pensavo, nessuno ci pensava. Con la relativamente recente denominazione inglese di street food ecco che quelle buone cose di una volta, riproposte con i dovuti aggiustamenti e rivisitazioni, hanno ampliato diffusione, acquisito credito e naturalmente sono salite di prezzo. Ciò che ha profumo di storia, tradizioni, vecchie abitudini, forse povertà, quando diventa chic è un’altra cosa. Vale anche per cibi che “di strada” non sono, come le trippe, il baccalà o la pasta e fagioli. Ma perché “di strada?” La risposta è nella domanda stessa: niente ristorante, tavoli, piatti, posate, camerieri, ecc. ma il piacere di usare le mani sbocconcellando così, mentre si passeggia, si parla, oppure si sta seduti su una panchina a guardare il mare, le montagne, un lago, il tramonto, o gli occhi di chi ci tata dal veneziano, ma che non lo ha spaventato. “All’inizio – ricorda Stefano Gentile – non è stato facile. Soprattutto nella formazione degli aiutanti in cucina e nel reperire le materie prime”. Visto la difficoltà di farle venire dall’Italia, Stefano si è guardato attorno ed ha utilizzato gli ortaggi, di cui il Nepal è grande produttore, una particolare varietà di grano che cresce solo a queste altitudini, il latte delle capre, le uova delle galline che qui, fortunatamente, sono ancora “ruspanti” per creare piatti italiani. Gli sforzi sono stati premiati. “Dapprima – spiega – ho proposto cibi misti: ovvero la pasta con in aggiunta le spezie. Poi, a poco è vicino, senza bisogno di parlare. Del resto, si mangia (anche) in strada da sempre, ma il farlo in quel modo ne ha forse condizionato la nobilitazione, fino a poco tempo fa naturalmente, perché adesso le cose sono cambiate e forse quel britannico street food ha non poco contribuito. È oramai divenuto frequente anche per me imbattermi in proposte di cibo di strada, in occasione di feste patronali, sagre di paese e quant’altro, dove imperano arrosticini, arancini, piadine, fritture di pesce, ecc. ma anche in contesti che non esito a definire eleganti e raffinati, frequentati da “bella gente”. Street food un po’ dappertutto dunque, ma non ho dubbi sulla più grande parata di street food che io abbia mai incontrato. A Pechino, la strada dello shopping per definizione è Wangfujing, un lungo viale pedonalizzato dove in negozi eleganti e grandi magazzini i più importanti marchi mondiali del lusso la fanno da padrone. Ma nella parte meno appariscente, quella più vicina alla Città Proibita, alla sera appare improvvisamente dal nulla una sequenza interminabile di chioschi e bancarelle ricolmi di ogni tipo di cibo di strada. Dalla tipica e nota anatra laccata a proposte inquietana poco, ho diminuito le dosi, e adesso gli stessi abitanti di Pokhara vengono nel mio ristorante e mi chiedono spaghetti e ravioli al semplice sugo di pomodoro e non al vapore e speziati come li servono nei ristoranti locali, o la pizza Margherita, di cui sono particolarmente ghiotti”. Dal Veneto, lago di Garda, arriva l’olio di oliva extravergine, portato da Stefano quando ogni tre – quattro mesi ritorna a Venezia, per rivedere la famiglia. “L’olio piace molto – sottolinea – tanto che chi se lo può permettere mi chiede di comprarlo”. Il Med 5, che i nepalesi ormai chiamano la cucina di Marco Polo, è anche un laboratorio per lo street food, che sta prendendo piede fra i giovani. Accanto alle bruschette utilizzando il pane tibetano, lo chef sta inserendo zuppette di ortaggi con un filo d’olio, e cartoncini contenti verdure fritte e riso, che resta il piatto principale del Nepal. È l’alimento base: il Bhat di Dhal (letteralmente lenticchie e riso, serviti con curry e verdure cotte a vapore) è il piatto più comune, cucinato, lungo la strada, in grandi pentole poste su dei rudimentali bracieri e consumato in ciotole di terracotta. ti quali scorpioni, cavallette ed altri insetti fritti, oltre che rettili e larve di varia origine. Vere ghiottonerie suppongo, non proprio per tutti in verità. Io giro il mondo, sono curioso, ma quelle golosità non mi hanno mai attratto e dunque mi astengo da giudizi. E adesso che ho chiuso la nota mi sorge un dubbio: la archivierò sotto la “s” di street food o la “c” di cibo di strada?