Già nel paleolitico gli uomini catturavano e mangiavano pesci di fiume o di lago,  come dimostrato dai ritrovamenti di resti  di pasti contenenti lische e teste di pesce  anche molto lontano dalle coste. In quasi  tutte le località italiane dove sorgevano villaggi su palafitte prossime a fiumi o laghi  sono stati trovati reperti che provano come  già 6000 anni fa la pesca in acque inter ne fosse attività comune. È il caso di alcuni laghi padani, dell’umbro Trasimeno e dei  laghi laziali di Bolsena e di Bracciano, dove  il fondale ha restituito anche i pali di fon dazione delle abitazioni, numerosi oggetti di uso comune, ami di corno, arpioni di  osso, lance, piroghe dell’età del bronzo e  resti di reti da pesca con le cui annodature  simili a quelle odierne. Per gli antichi Egizi  e le popolazioni mesopotamiche, i fiumi  (Nilo, Tigri, Eufrate) rappresentavano la  principale risorsa nutritiva. Il pesce veni va pescato con reti, lance e nasse di canne  intrecciate ed era venduto nei mercati, consumato fresco ma anche pulito e conserva to sotto sale per donarlo agli dei e ai defunti come offerta. Scrittori latini come Plinio,  Eliano, Oppiano, Decimo o Ausonio testimoniano della grande importanza della  pesca nei fiumi e nei laghi dell’Antica Roma  e dell’Impero. I loro testi descrivono varie  specie di pesci, la tecnica della pesca con  lo “sparviero” e altri metodi di cattura, le  abitudini di vita, le localizzazioni predi lette e perfino gli organi di senso di diver se specie ittiche. Con il Cristianesimo il  nome greco del pesce – (ichtòs) divenne l’acrostico di “Iesùs Christòs Theòu Uiòs  Sotèr” (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore).  

Nei Vangeli i riferimenti alla pesca, ai  pescatori e al lago di Tiberiade sono frequenti e nell’Alto Medioevo il pesce assume la valenza di alimento “cristologico”  capace di contrapporsi ai peccati della  carne e in quanto tale ammesso negli oltre  200 giorni annuali di astinenza e digiuno.  È opinione comune che i pesci d’acqua  dolce siano generalmente meno saporiti  (ovvero meno “salati”) di quelli marini.  Certo, l’acqua di mare contiene mediamente il 3% di cloruro di sodio, il comune sale  da cucina, ma non è questa la spiegazione del gusto più spiccato dei pesci di mare,  poiché la concentrazione di sodio nelle cellule di tutti i pesci, sia di acqua dolce che  salata, è inferiore all’uno per cento. I pesci  marini devono compensare la pressione  osmotica sulle cellule e per sopravvivere  nei mari devono ingurgitare grandi quantità di acqua salata accumulando nelle cellule alcuni amminoacidi fra cui la glicina,  dal sapore dolciastro, e l’acido glutammico  insieme al suo sale, il glutammato (l’umami  dei giapponesi), che ha il potere di esalta re i sapori e di rendere apparentemente più  sapide le carni. I pesci d’acqua dolce, invece, vivendo in un ambiente povero di sodio  (mediamente inferiore all’1,5%), mantengono naturalmente il loro equilibrio cellulare, non si disidratano, non devono “bere”  grandi quantità d’acqua e hanno un sapore più blando in quanto non immagazzinano quelle sostanze nelle loro cellule. Se si  esclude la trota, di cui siamo tra i principali produttori europei, il pesce di acqua dolce  più consumato in Italia è il Lates niloticus o  “Persico del Nilo”, una delle specie invasi ve più dannose al mondo. Predatore vorace  e prolifico, può arrivare a due metri di lunghezza e 200 chili di peso e viene pescato  nelle acque del Lago Victoria (fra Tanzania,  Kenya e Uganda), notoriamente cariche di  liquami, metalli pesanti e una quantità  enorme di pesticidi proveniente dalle piantagioni di tè e caffè. Le sue carni sono ricche di colesterolo, povere di omega3, di  gusto scialbo ma attraggono i gastro-gon zi per il colore rosato, l’assenza di spine,  la dimensione dei filetti e il prezzo basso.  Per farsi un’idea di come la sua pesca abbia  distrutto l’assetto sociale delle popolazioni  che vivono attorno al lago, basta guardare il  pluripremiato film-verità di Hubert Sauper  “L’incubo di Darwin”. Tra i più gettona ti pesci d’acqua dolce nel nostro paese vi  è anche il pangasio (Pangasius hypophtal mus), della famiglia dei pesci gatto, allevato e pescato in Vietnam, nelle acque del  delta del Mekong – tra le più inquinate a  livello mondiale – e trattato con nitrati, solfiti e anidride solforosa. I suoi filetti, venduti a prezzi molto bassi, contengono molta  acqua, poco grasso e sono praticamente  privi sapore al punto da essere spacciati per  merluzzo, ombrina o gallinella. Due parole  sulla tilapia (Oreochromis spp.) il cui mag gior produttore è la Cina ed è forse il pesce  più venduto al mondo poiché insapore, di  rapidissima crescita e costo molto basso.  A parte l’irrilevante contenuto di omega3,  preoccupano le condizioni di allevamento  di questo pesce non carnivoro che dovrebbe nutrirsi di alghe e piante acquatiche e  che invece viene allevato con mangimi a  base di scarti di pollame, carcasse animali,  cascami di bestiame e persino feci umane  in bacini contaminati da acque reflue, nella  sporcizia generale. Per quanto i control li delle autorità italiane siano costanti ed  efficaci sulla qualità sanitaria di questi tre  pesci importati, personalmente li guardo con disistima e ne faccio felicemente a  meno, soprattutto per le implicazioni etiche e ambientali che si celano dietro al loro  allevamento e commercio. Preferisco il persico, il coregone, le tinche, i lucci del “mio”  Lago di Bolsena, i “missultitt” (agoni essiccati) che mi manda Carlo dal Lago di Como,  il salmerino del Lago di Tovel (TN), le trote  iridee del Cordevole (BL) o della Valnerina  (TR). Mi rattrista che in Italia i pesci di lago  e fiume siano spesso sconosciuti, sotto-sti mati e, soprattutto nel centro-sud poco  considerati dai mercati e dalla ristorazione. Se il motivo è nella delicatezza delle loro  carni, meglio non svilirle con l’aggiunta di  aromi, salse o intrugli vari. Basterebbe cuocerli assieme a un pezzo di alga kombu per  restituire loro quel tanto di acido glutammico (umami) che Madre Natura ha voluto  regalare solo al pesce di mare.