Il mio amore, la mia passione per il baccalà e lo stoccafisso è a dir poco imbarazzante. Da dove cominciare per condensare in meno di 13000 battute (spazi inclusi) un argomento tanto vasto, complesso e affascinante? E soprattutto: cosa sacrificare all’implacabilità dello spazio tipografico e del mio Direttore? Dunque, il termine “merluzzo” designa una tipologia di pesci in modo ambiguo e generico. Sotto questa dizione commerciale rientrano infatti centinaia di specie ittiche differenti: dal merluzzo bianco al “cappellano”, da quello “carbonaro” al “nasello”, passando per i merluzzi del Pacifico, della Groenlandia, della Nuova Zelanda, dell’Alaska. Per i popoli del Mediterraneo il merluzzo (dal latino maris lucius per la sua somiglianza con il luccio) è da sempre solo quello color argento, noto anche col nome di nasello e appartenente alla famiglia dei Merluccidae. È un pesce che soffre di un immeritato dispregio gastronomico, al pari di quanto succede ad altre specie “povere”. È vero, la sua carne è di consistenza modesta, facilmente deperibile e tenue al gusto. Anche il suo prezzo di vendita (che per molti è purtroppo l’unico parametro di giudizio sulla qualità) è pari alla considerazione organolettica, ma ciò non toglie che il nasello sia nutrizionalmente prezioso e altamente reputato da tutte le gastronomie rivierasche. Facili da pulire, le sue carni bianche e poco iodate incontrano anche il favore dei bambini, notoriamente poco inclini a mangiare il pesce. Da sempre il merluzzo mediterraneo contribuisce a “far volume” nelle classiche preparazioni di necessità (quelle nate nelle case dei pescatori, come le zuppe di pesce, i brodetti, e le polpette) e se adeguatamente trattato in cucina, tende ad assimilare salse, profumi e aromi con mirabile intensità. Comunque sia cotto – al vapore, bollito, in padella o al forno – il nostro merluzzetto casalingo è buono e fa bene. Se ciò non bastasse, infarinato e fritto in olio extravergine d’oliva, magari assieme a qualche triglietta di scoglio, l’umile nasello è in grado di far ricredere anche i neo-cafon più sofisticati. Per la cronaca, raggiunge al massimo i 35 cm di lunghezza per un peso di oltre 4 kilogrammi, vive in banchi numerosissimi in acque fredde tra i 150 e i 600 metri, in prossimità di fondali fangosi o rocciosi e si ciba di piccoli crostacei, calamaretti e soglioline. Diffuso in tutto il Mediterraneo, latita un po’ nell’alto Adriatico (da Fano in su) notoriamente poco profondo. Per questo motivo la cucina veneta e friulana non lo includono tra gli ingredienti tradizionali di zuppe e fritture di paranza. La varietà di merluzzo di maggior rilevanza commerciale (tra le più pescate e trasformate al mondo) appartiene invece alla famiglia dei Gadidae, forte di 140 sottospecie che razziano interi banchi di aringhe e anguille. La più pregiata è il Gadus morhua o merluzzo bianco che può superare il metro e mezzo di lunghezza e pesare fino a 90 chili. Tra i due e i sei anni di età il G. morhua impigrisce in enormi riserve ittiche nelle fredde acque del Mar di Barents. Raggiunta la maturità sessuale migra per deporre le uova verso acque più calde e non essendo un grande nuotatore si preoccupa di viaggiare il meno possibile. Una parte degli sterminati banchi “in fregola” intercetta l’acqua calda proveniente del Golfo del Messico che lambisce le coste della Norvegia, in particolare nelle acque che circondano le Isole Lofoten, mentre altri si spingono fino alle coste del Labrador e a Terranova. La diversa localizzazione dei banchi di pesce corrisponde anche a due diverse tecniche di conservazione del merluzzo bianco: la salagione e l’essiccazione – due promesse quasi mantenute di eternità – che lo transustanziano in baccalà e stoccafisso. Già nell’anno Mille i baschi pescavano le balene, allora numerose nel golfo di Guascogna, sulla costa atlantica del confine tra Francia e Spagna. Dopo secoli di sterminio selvaggio, le balene, più o meno nel ‘400, pensarono bene di tenersi alla larga da quell’area e tracciarono una loro personale rotta a nordovest fino alle coste del Labrador. Più disperati per fame che cocciuti d’orgoglio, i baschi decisero di seguire la via delle balene e si ritrovarono in acque magicamente feconde di una sterminata risorsa ittica: il merluzzo bianco. Ne riempirono le stive coprendolo con il sale che si erano portati appresso per conservare le carni di balena. La carne poco grassa del merluzzo eviscerato e salato era straordinariamente più gustosa e duratura rispetto a quella di balena o di aringa e il successo commerciale del “baccalà” in Europa fu enorme fin da subito. Per quanto i baschi si guardassero bene dal rivelare al mondo la loro fonte di approvvigionamento, il segreto fu di breve durata. Nel 1496 infatti i fratelli Caboto, alla ricerca del Passaggio a Nord Ovest, si ritrovarono a Terranova con la nave completamente bloccata da milioni di merluzzi. La pesca al merluzzo da salagione nel Labrador e a Terranova scatenò allora la concorrenza di Olanda, Spagna, Francia e Portogallo, al punto da richiedere la scorta militare ai pescherecci; almeno finché Francia e Inghilterra imposero un duopolio commerciale con la forza delle armi. Nel XVI secolo il baccalà canadese rappresentava più un problema politico che una questione commerciale. Oggi i problemi persistono, anche se di diversa natura. I grandi pescherecci oceanici spagnoli, portoghesi, francesi e sovietici pescavano negli anni ‘80 fino a due milioni di tonnellate annue di Gadus Morhue nelle acque canadesi. Le reti a strascico setacciavano le acque e raschiavano i fondali depauperandoli di esemplari troppo giovani, pesci privi di valore gastronomico, femmine gravide (ognuna può deporre anche dieci milioni di uova l’anno). In pochi, governi in testa, ricordavano che il merluzzo non inizia a deporre uova prima dei 6, 7 anni d’età! Il collasso canadese è oggi irrecuperabile, al punto che quel Governo già da quindici anni ne ha proibito la pesca. Poco importa all’industria conserviera, quella dei surgelati in particolare, che utilizza sempre più spesso varietà meno pregiate ma simili per consistenza al merluzzo, influendo così anche su abitudini alimentari saldamente radicate. Che dire degli stupidi “bastoncini di pesce” o del fish and chips, il piu tipico snack inglese: entrambi nascondono sotto un involucro di dubbia composizione, un filetto bianco e friabile che non è di vero merluzzo ma di pesci meno cari come l’eglefino, il pollak, i naselli del Sudafrica o l’orrendo e inquinatissimo pangasio del Mekong. Più antica e affascinante la vicenda storica dello stoccafisso, cioè il Gadus Morhue decapitato, aperto e poi essiccato. 

Fu un’invenzione dei Vichinghi, che appendevano i pesci al vento e al sole delle coste perché divenissero secchi e leggeri in modo da poter essere trasportati senza difficoltà durante le lunghissime traversate che li portarono perfino nelle Americhe, precedendo Colombo di qualche secolo. Il nome stesso di “stockfish’ può essere fatto risalire a quello del dio vichingo Thor, o più plausibilmente da torsk, che in vichingo vuol dire merluzzo, trasformatosi poi in torrfisk e quindi in stockfish. L’etimo di baccalà si rifà invece al fiammingo kabeljaw (bastone di pesce), oppure al nome dell’isola di Bacalieu, a Terranova. Alcuni autori fanno riferimento alla parola gaelica Bachal, che significa pertica, intendendo lungo bastone, a cavallo del quale il pesce veniva fatto essiccare. A me piace ricordare che la parola bacalhau portoghese (bacalao in spagnolo) è sicuramente derivata dal latino baculus, che significa bastone. Per i naviganti del Nordeuropa (area in cui la quantità di sole non permette di ottenere il sale per evaporazione dell’acqua marina) il merluzzo secco – lo skyor, originario del mare di Barents e pescato tra gennaio ed aprile nelle acque norvegesi che circondano le isole Lofoten – ha significato sopravvivenza ma soprattutto commercio e valuta pregiata. È almeno dal 1160 che i Norvegesi esercitano indisturbati il monopolio sullo stoccafisso. Negli ultimi 500 anni la pesca dello skyor si è intrecciata con tutte le vicende storiche del nuovo e del vecchio mondo. Fu per sanzionare il commercio dello merluzzo conservato, che Francis Drake, al soldo della corona inglese, distrusse nel 1588 l’Invincibile Armada annientando anche i pescherecci spagnoli. Dal ‘500 al 1976 il commercio delle carni di merluzzo bianco è segnato da guerre, ostilità e ritorsioni. Fino al 1973, quando fregate e cannoniere inglesi ed islandesi si sono fronteggiate a colpi d’artiglieria per il controllo dei grossi banchi di merluzzo che si trovano nei mari tra i due paesi. La storia si è ripetuta nel 1984 con lunghi momenti di tensione tra Inghilterra e Spagna. Ma si sa che etica e morale hanno poco a che spartire col commercio. Come successe con la “Tratta degli Schiavi” del ‘600, che mise in moto lucrose esportazioni di stoccafisso e baccalà per nutrire di proteine a basso costo i lavoratori delle piantagioni di cotone, zucchero e caffè. E il merluzzo essiccato divenne anche moneta sonante per molti commercianti spagnoli e olandesi di pochi scrupoli che in cambio di qualche libbra di pesce compravano schiavi nei Caraibi per rivenderli come forza lavoro in Virginia e Georgia. Anche la tradizionale gastronomia brasiliana del bacalaho ebbe inizio con l’esportazione portoghese di stoccafisso per nutrire gli schiavi in cambio dell’oro di Minas Gerais… ma queste son storie tristi e dolorose che rischiano di toglierci l’appetito e di appannare il fascino di questo pesce che muore e rinasce come l’araba fenice e che, più di ogni altro prodotto commestibile, ha profondamente cambiato la storia del mondo. Ma veniamo a qualche notazione tecnica. I merluzzi più grassi e ancora gravidi di uova, vengono pescati tra gennaio e febbraio e sono destinati alla produzione del clippfisk (baccalà salato), il preferito da spagnoli e portoghesi. Tra marzo e aprile si pescano – rigorosamente con l’ amo – gli esemplari migliori di merluzzo bianco destinati ad essere trasformati in stoccafisso. Pesano meno di sei chili e dopo essere stati decapitati ad arte vengono eviscerati, aperti a libro e appesi a coppie sulle hesje (rastrelliere, orizzontali a Ballstad e a forma di piramide a Hennissv) in balia di sole, freddo, aria, pioggia e neve fino a giugno. Al momento della raccolta il torrfisk viene separato in ordine alla qualità e quindi classificato nelle 17 tipologie commerciali: Westre, Holender, Breme, Grand première, fino al pregiatissimo Ragno, ritenuto dagli italiani – che si accaparrano il 95% dello stoccafisso prodotto alle Lofoten – il non-plus-ultra. Come per il maiale, del merluzzo norvegese non si butta via nulla e tutto ciò che viene eliminato dal pesce fresco prima di metterlo a essiccare è venduto o trasformato con intelligenza e creatività. Le teste fresche tritate rappresentano un must per gli islandesi, assieme alla pelle che viene fritta e spalmata di burro. Sempre le teste, ma essiccate, sono esportate sui mercati africani, come la Nigeria, dove costituiscono la base per una zuppa molto popolare e gustosa. Le guance (sublimi!) vengono servite fritte, mentre le lingue – che sono in realtà la gola – rappresentano per i norvegesi una vera leccornia. Le sacche ovariche sono presentate nei migliori ristoranti di Oslo o Bergen bollite e affettate, le guance, impastellate e fritte, diventano raffinati apetizers e il fegato si sublima in un umido di straordinaria eleganza. I giapponesi, che non si fanno mancar nulla in materia ittica, sono ghiotti dello stomaco di merluzzo che farciscono con altro pesce e affettano crudo sul sushi o sui soba. Nulla di strano, dato che anche la cucina calabrese e siciliana perpetuano un’arcaica ricetta di stomaco di merluzzo fritto e poi cotto a lungo con passata di pomodoro, aglio e olive nere. A far concorrenza all’amore degli italiani per lo stoccafisso ci pensano i portoghesi che tra le loro 365 ricette (quando vogliono esagerare dicono mille) per cucinarlo annoverano piatti che contemplano la coda, la lingua, le uova e anche la testa, che lessano e servono divisa a metà con contorno di patate bollite e olio d’oliva. Fuori dall’ambito gastronomico è opportuno ricordare che dal fegato del merluzzo si ricava l’odiatissimo olio medicinale che ha rovinato l’infanzia a intere generazioni di figli del dopoguerra a cui i medici affibbiavano la stupida etichetta di “bambini linfatici” (sic!). Dagli intestini vengono estratti enzimi usati in processi altamente tecnologici nell’industria farmaceutica e cosmetica e ciò che rimane diventa cibo per l’allevamento dei salmoni. Curiosamente il cosiddetto “latte” di merluzzo (che altro non è che il liquido seminale dei maschi) è ingrediente insostituibile nella preparazione dei rossetti per labbra.

Sergio. G. Grasso