Nel V sec. a.C. lo storico ateniese Tucidide scrisse: “I popoli del Mediterraneo cominciarono ad uscire dalla barbarie quando impararono a coltivare l’olivo e la vite”. In effetti, l’ulivo (Olea europaea) è la pianta centrale nella storia di tutte le civiltà e le culture che si affacciano su quel mare. Ad oggi si ritiene che l’ulivo selvatico primigenio abbia iniziato il suo fantastico viaggio più di trenta milioni di anni fa partendo dai territori compresi tra il sud del Caucaso, gli altopiani dell’Iran e le coste mediterranee della Siria e della Palestina, trovando asilo nell’Egeo, in Provenza in Nordafrica e in Italia. Il palazzo miceneo di Cnosso, sull’isola di Creta, ha conservato per trentasette secoli antichissimi mortai di pietra, grandi vasche di decantazione e notevoli affreschi con rami, fiori e alberi di ulivo. Coppe colme di nòccioli di olive sono state rinvenute, ad Archanes e a Zakros, mentre gli scavi di Festos hanno restituito frantoi, depositi e giare olearie (pithoi) oltre a una tavoletta d’argilla su cui gli amministratori del Re avevano annotato i luoghi di produzione delle olive e le destinazioni di vendita dell’olio, registrando anche i prezzi minimi per le diverse qualità e le forme di pagamento. È evidente che i re minoici dovevano al commercio dell’olio buona parte della loro ricchezza. Le migliaia di anfore d’olio cretese esportate ogni mese in Egitto erano destinate a scopi rituali, cosmetici, curativi e per l’illuminazione civile e votiva; molto meno per uso gastronomico, poiché gli Egizi erano soliti cuocere e condire con gli oli di sesamo, di lino e di moringa. Il legno dell’ulivo si impiegava per costruire i sarcofagi più costosi, mentre rami e foglie venivano intrecciate per ottenere corone simili a quella deposta nella tomba di Tutankhamon. Il Papiro Ebers, trattato di medicina stilato nel 1550 a.C., prescrive l’olio d’oliva come lassativo, la pasta di sansa per curare ferite, piaghe ed eruzioni cutanee; indica anche l’olio spremuto dai nòccioli come coadiuvante per la crescita dei capelli e propone un decotto di radici d’ulivo per risolvere il mal di testa. L’introduzione dell’ulivo in Grecia, a Cartagine, in Cirenaica e quindi in Sicilia, fu opera di navigatori Fenici del IX secolo a.C. Un secolo più tardi la sua coltivazione si sarebbe propagata nel Lazio e in Toscana per mano degli Etruschi che erano soliti lasciare ampolle d’olio e piatti colmi di olive nelle tombe come ultimo pasto per il defunto. In Grecia l’ulivo era consacrato alla dea Atena (la Minerva dei Romani) che ne aveva fatto dono agli uomini dopo aver vinto una sfida con Nettuno. Il legislatore Solone, nel VII sec. a.C., dette impulso alla diffusione degli uliveti in Attica, li pose sotto la tutela di Zeus e decretò che ogni anno ogni proprietario non potesse abbattere più di due alberi impiegando quel legno solo per costruire oggetti votivi o doni per gli sposi. Lo stesso Omero racconta che Ulisse costruì la sua reggia attorno a un ulivo e che da quell’albero ricavò, senza tagliarlo, il letto nuziale a simboleggiare il suo imperituro amore per Penelope. L’ulivo si è diffuso nel Mediterraneo e ben oltre grazie alla sua capacità di adattarsi ad ogni tipo di terreno e di clima. È una pianta “rustica”, con esigenze nutrizionali minime e che tollera la scarsità d’acqua pur essendo sensibile ai ristagni idrici e al freddo a causa delle sue radici poco profonde. Ha un accrescimento lentissimo (le prime olive si raccolgono dopo 3 o 4 anni e una buona produttività si ha dopo 10 anni) e il suo fusto nodoso è talmente duro e compatto da rendere arduo perfino stabilirne l’età contando i fittissimi gli anelli di accrescimento. L’ulivo sembra voler sfidare l’immortalità al punto che se una forte gelata o un incendio distruggono la sua chioma o il fusto, è sufficiente che si salvi un solo pollone per far risorgere la pianta in pochi anni. Nel Mediterraneo (r)esistono ulivi fruttuosi oggi come lo erano quattromila anni fa, nella prima età del bronzo. Se ne possono raccogliere ancora le olive in Libano nel villaggio di Bechealeh, a Betlemme nel quartiere Al Walaja, a Vouves sull’isola di Creta ma anche in Italia: a Pisciotta in Cilento, a Luras in Sardegna o a Manduria in Puglia. Quando i Romani presero in prestito dal Pantheon greco la figura di Eirene, dea della pace, figlia di Giove e della Dea Giustizia, la chiamarono Pax e le posero in mano una fronda d’ulivo a simboleggiare il rifiorire della terra sotto il dominio di Roma. Consci delle straordinarie doti di longevità e resistenza della pianta sotto alla quale erano nati Romolo e Remo, vedevano nell’ulivo il simbolo della tenacia del popolo e dell’eternità dell’Urbe, fino a porre un ramoscello di ulivo tra le mani dei defunti a simboleggiare la rinascita. Autori come Marziale, Orazio e Petronio ci ricordano che le olive, verdi o nere, venivano consumate sia come prima colazione (jentaculum) sia all’inizio della cena (gustationes), spesso accompagnate con uova. Sappiamo anche che coppe di olive condite venivano servite nei simposi per accompagnare i calici di vino che scorrevano copiosi come le parole fino a tarda notte. Venditori di olive, ceci tostati e lupini erano una presenza costante lungo le strade e nei mercati dell’Urbe, soprattutto attorno e dentro i teatri e i circhi dove il pubblico aveva l’incivile consuetudine di sputare i nòccioli sulle gradinate. Scrittori di agricoltura come Catone, Columella, Rutilio Palladio e Plinio il Vecchio, si prodigano in suggerimenti per la conservazione delle olive, sia per servirle a tavola più o meno condite, sia per poterne spremere olio fresco (?) anche dopo mesi dalla raccolta. Generalmente, dopo averle lasciate qualche tempo sotto sale (processo di fermentazione lattica) o ricoperte da un miscuglio di cenere e calce (processo di ossidazione), si sommergevano in salamoia o in olio, talvolta in aceto, talaltra in mosto cotto: si lasciavano al buio almeno per una luna e al momento di servirsene venivano condite con aglio, ruta, prezzemolo, lentisco o finocchio. Sono molti i motivi che giustificano il successo più che millenario delle olive cosiddette “da tavola”. Innanzi tutto, la grande disponibilità di varietà polpose e idonee alla conservazione. Sarà bene ricordare che l’Italia vanta più della metà delle cultivar d’ulivo catalogate nel mondo, molte delle quali esistevano già all’epoca dei Cesari. Tra le varietà da tavola verdi o nere che il mondo ci invidia ecco l’Ascolana, la Bella di Cerignola, l’Itrana, la Nocellara del Belice o Etnea, la Maiatica, la Carolea, la Leccina, la Sant’Agostino, la Giarraffa, la Cucco, la Taggiasca…In secondo luogo, la constatazione che l’oliva, qualunque essa sia, stimola l’appetito, aiuta la digestione e gratifica il palato con tutti e cinque i sapori fondamentali: acido, amaro, dolce, salato e umami. Non da ultimi gli aspetti nutrizionali che riguardano un apporto calorico importante (tra 140 e 240 kCal/100 gr. a seconda della varietà e del metodo di conservazione) ma soprattutto l’elevato contenuto di grassi monoinsaturi che contribuiscono al metabolismo del colesterolo, oltre a carotenoidi, fitosteroli, tocoferoli e polifenoli con funzioni antiossidanti: un piccolo ma esclusivo forziere di gusto e salute, bello da mangiare e buono da pensare!