Quando l’uomo preistorico apprese come procurarsi e conservare il fuoco provocato da un incendio, un’eruzione o un fulmine, anziché esserne terrorizzato e scappare come tutti gli altri animali, provò ad impossessarsi di qualche tizzone e, a costo di qualche ustione, lo usò per compiere il più importante balzo evolutivo mai registrato dalla storia umana. Scoprì che braci e fiamme gli fornivano calore per combattere il freddo e luce per sconfiggere le tenebre, lo aiutavano a liberare le grotte dagli animali che le abitavano, tenevano lontani i predatori che lo minacciavano. Grazie al fuoco apprese a cacciare bruciando porzioni di bosco in modo da disorientare le prede e farle cadere nelle trappole scavate nel terreno. E si accorse anche che le lance e i bastoni in legno impiegati per cacciare, se lasciati con la punta sulle braci ardenti si tempravano, diventavano molto più duri e letali. Per quanto riguarda il cibo, i paleoantropologi ritengono che la prima carne cotta assaporata dall’uomo, ben prima di “rubare” il primo tizzone, sia stata quella di una bestia rimasta vittima in un incendio boschivo, un paleoarrosto casuale ma sorprendentemente più appetibile e più facile da masticare e digerire rispetto alla solita carne cruda. Nei trattati di paleontologia degli anni ’90 del secolo scorso si collocava ancora la “scoperta” del fuoco a 4 o 500 mila anni fa, all’epoca dei Neanderthal. Homo erectus (noto anche come pitecantropo, sinantropo o Uomo di Giava) era in grado di controllare il fuoco già un milione di anni fa. Lo dimostrano i sedimenti di erbe, foglie e ramoscelli, associati a frammenti di ossa tostate e a pietre bruciate rinvenute nella grotta di Wonderwerk, in Sudafrica. Le tecniche di micro-spettroscopia all’infrarosso hanno permesso di stabilire che quei resti organici abbiano raggiunto temperature dell’ordine dei 600°C. Fino ad oggi i focolari più antichi erano quelli emersi a Gesher Benot Ya’akov in Israele, (700 mila anni fa) e Swartkrans, in Sudafrica (un milione di anni fa), entrambi collocati all’aperto quindi potenzialmente dovuti a cause naturali come incendi e fulmini. Nel caso di Wonderwerk non v’è dubbio sull’intenzionalità di quei fuochi, peraltro circoscritti con pietre. Cucinare è un tratto spiccatamente umano e nessun altro animale è in grado di impegnarsi in questo comportamento. L’uso del fuoco per arrostire il cibo non solo intenerisce l’alimento e ne esalta i sapori ma aiuta a preservarli uccidendo i microrganismi dannosi e riducendo il contenuto di acqua. In questo modo, ad esempio, i Neanderthal che abitavano 400,000 anni fa la Grotta di Qesem in Israele, riuscivano a conservare il prezioso midollo delle ossa di cervo all’interno delle stesse ossa per consumarlo con tutta calma, anche dopo settimane o mesi.                                                                                                         Una volta riscaldati, zuccheri, proteine e altri componenti di carne e verdure subiscono reazioni chimiche che li rendono più facili da digerire, fornendo così più calorie per lo stesso pasto rispetto al cibo crudo stesso (è appena il caso di ricordare che “rosolare” o scottare le carni prima di arrostirle nel forno non serve minimamente a “sigillarle” ma a sviluppare aromi e colore come risultato delle reazioni di Maillard…). I primatologi hanno stabilito che a Homo erectus servivano almeno nove ore di lavoro giornaliero per raccogliere e mangiare piante e carni crude sufficienti a produrre l’energia necessaria a Homo erectus. Con la cottura si riduceva questo tempo della metà, a tutto vantaggio non solo del lavoro e della fatica ma anche dello sviluppo cerebrale, poiché il cervello umano, pur rappresentando solo il 2% della massa corporea, brucia circa il 25% delle calorie ingerite. Insomma, padroneggiare il fuoco è stato per noi umani il principale vantaggio evolutivo rispetto agli altri primati. Dal punto di vista culturale, l’arrosto ha un simbolismo complesso; in quasi tutti i culti e le religioni, gli animali venivano sacrificati alla divinità per azione del fuoco. Non tanto e non solo per cuocere le carni – che poi venivano mangiate dai sacerdoti – quanto per far arrivare in cielo il fumo (profumo) a testimonianza del sacrificio avvenuto. Nell’Iliade di Omero l’arrosto e lo spiedo, di bue e di maiale, era il pasto ordinario degli eroi sotto le mura di Troia. Lì si legge per esempio (libro IX) che Patroclo, su invito di Achille: “Tutto tagliò con arte, i pezzi trapassò con gli spiedi, di sale cospargendo, e di vino le carni sospese”. Aiace, il più forte degli Achei, dopo aver combattuto Ettore, viene ristorato da Agamennone col sacrificio di un bue: “Lo squartarono tutto. Poi lo tagliarono a pezzi, con cura li infilarono negli spiedi e li arrostirono con arte. Alla fine, li tolsero dal fuoco e l’intero filetto fu riservato ad Aiace. Allora banchettarono: a nessuno mancò la sua parte di cibo”. Nel canto XIV dell’Odissea, dedicato al ritorno di Ulisse ad Itaca, Omero descrive il pasto che il fedele porcaro Eumeo prepara all’eroe che si era presentato come un mendicante: “Andò alle stalle e prese due porcelletti che uccise; li tagliò e li infisse negli spiedi appuntiti, quindi arrostì il tutto, lo recò fumante all’ospite e lo asperse di farina”. Sempre di ambito greco benché più tardo (V secolo a.C.) è la ricetta – ancora attuale – di una lepre arrostita dal celebre gourmet greco-siceliota Archestrato di Gela: “… tu ponla sullo spiedo, cuocila e staccala ancora un po’ sanguinante. Poi semplicemente cospargila di sale e presentane le carne a ciascuno dei tuoi ospiti affamati; ogni altro modo di preparare la lepre è assurdo, secondo me”.                                                                                                                                              L’arrosto, proprio perché richiede una notevole quantità di legna combustibile e grossi pezzi di carne, per tutto il Medioevo fu considerato il sistema di cottura più prestigioso e nobile. Un illustre esempio è quello di Carlo Magno che, testimonia il suo biografo Eginardo: “…era assai sobrio nel mangiare e nel bere (…) Il suo pranzo quotidiano si componeva di sole quattro portate, non contando l’arrosto che i cacciatori solevano presentargli sugli spiedi e che egli mangiava più volentieri di qualsiasi altro cibo”. Mangiare molta carne era considerato segno di ricchezza e di potenza; un “signore” e ancor più un Re inappetente, magro e poco incline agli arrosti, specialmente di cacciagione, male incarnava il prestigio e l’autorevolezza del suo ruolo. Ecco che nei ricevimenti nobiliari la quantità di carni cotte sulle braci, allo spiedo e nei forni, si trasformava in un vero rito ostentatorio di forza e ricchezza. Basterebbe ricordare il banchetto offerto nel 1324 ad Avignone dal pontefice Giovanni XXII, per le nozze della nipote, che richiese il sacrificio di otto buoi, altrettanti maiali, cinque cinghiali, cinquanta montoni, un migliaio di polli, duecentosettanta conigli, seicento capi di nobile selvaggina pennuta e una quantità imprecisata di modesti uccelletti. Anche il pranzo offerto nel 1367 da Galeazzo Visconti per gli sponsali della figlia non era da meno: diciotto portate fra le quali “un gran vitello intero e dorato con trote all’intorno e due porcellini dorati che mandavano fuoco dalla bocca”.