Un distributore inglese di vino e alcolici, con ampia rete commerciale nel sud dell’Inghilterra comprendente diversi ristoranti italiani, ci passava un ordine di prova di limoncello di nostra produzione chiedendo che le spese di trasporto fino al suo deposito di Southampton venissero sostenute da noi. Sull’ordine inviatoci, alla voce delivery, infatti, risultava l’indicazione “Franco Domicile Southampton” e la spedizione (24 cartoni in un pallet) veniva da noi consegnata a uno spedizioniere italiano per l’inoltro. All’arrivo a destino, venivano accertati danni da trasporto per scondizionamento e schiacciamento di diversi cartoni contenenti le bottiglie di liquore, il cui valore veniva autonomamente, e cioè senza alcun previo accordo tra noi, defalcato da parte dello spedizioniere inglese, dal pagamento della nostra fattura. Poteva farlo?

Dipende dalla portata giuridica attribuita al tipo di termine di resa (anche qui) autonomamente da lui richiamato nell’ordinativo passatovi. I fatti, comunque, dimostrano che l’interpretazione data dal distributore all’espressione Franco Domicile è, unilateralmente, quella a lui più conveniente. Il problema, affinché non si pensi che dei termini di contratto (spese, rischi, pagamenti, prezzi ecc.) si possa avere una pericolosa elasticità interpretativa, sta proprio nel fatto che con l’impiego di espressioni vaghe, generiche e frutto di usi locali quali appunto il Franco Domicile non si è mai certi – meglio sarebbe dire che non c’è mai il diritto di essere certi – che la loro interpretazione sia uniforme per entrambe le parti di un contratto (soprattutto) internazionale di compra-vendita. Quello infatti che manca in questa terminologia mercantile, per così dire “casereccia” e non in uso nelle transazioni internazionali, è l’indicazione della netta separazione del rischio tra il venditore e il compratore. L’espressione ‘Franco’ infatti, qui derivata dal francese e anche dall’italiano, stabilisce solo che il trasporto di merci a destino è ‘franco’ cioè gratuito per il compratore/destinatario. Ma non dice se, con le spese, questi debba sopportarne anche i rischi. L’uso di questa espressione così tanto diffusa nel linguaggio commerciale interno, dovrebbe rimanere confinato in un ambito domestico dato che in quello internazionale può dare luogo, come nel caso in esame, a interpretazioni soggettive e quindi difformi con conseguenze che non è difficile immaginare per quella delle due parti, il venditore e compratore, che ne trae pregiudizio (quasi sempre il venditore, soprattutto quando la fornitura non gli è ancora stata pagata ed è quindi facilmente ricattabile dal compratore che si trova già in possesso fisico delle merci). Ma già negli usi di piazza o di porto interni, l’espressione ‘franco’ è, per i suddetti motivi, infelice perché incompleta e ambigua, e quindi non se ne consiglia l’utilizzo nemmeno nel . commercio interno. Lo stesso dicasi per le altre espressioni che si possono trovare nelle Condizioni Generali di vendita, ossia ‘porto franco’ oppure ‘franco di porto’ perché, a fronte della gratuità degli oneri del trasporto per il compratore così definiti, non si dice in alcun modo su chi incomba il rischio e/o la responsabilità di perdita e avaria delle merci viaggianti. Al punto che si consiglia il richiamo, anche nei contratti interni, di formule più adeguate e complete quali, per esempio, quelle della Camera di Commercio Internazionale, appositamente coniate per ridurre al minimo la possibilità di incomprensione tra le parti, ossia gli Incoterms. Nel caso in esame, allora, se le parti avessero con maggiore diligenza fatto ricorso in questa fornitura agli Incoterms piuttosto che a clausole di commercio locale – in Inghilterra si trova anche l’espressione “Franco o Free House” (sempre, naturalmente, con i suddetti limiti espressivi) – avrebbero potuto utilizzare il termine CPT/Southampton in cui al venditore compete ‘solo’ l’onere del trasporto, mentre il relativo rischio si trasferisce nel compratore alla consegna della spedizione al vettore/spedizioniere. Consegna, allora, che a seconda del quantitativo di merce può avvenire presso il terminale di raccolta e raggruppamento delle merci per successivo inoltro alle destinazioni finali, o in alternativa (per carichi completi e unitizzati) presso i locali del venditore/mittente. L’acronimo CPT sta, infatti, per Carriage Paid To, ossia: trasporto pagato fino al luogo di destinazione convenuto. Qui si parla solo di trasporto e non di rischi. Ma neanche la versione assicurata CIP, che sta per Carriage and Insurance Paid To, ossia trasporto e assicurazione pagati fino al luogo di destinazione convenuto, serve a trattenere sul venditore il rischio perché i termini sono per struttura equivalenti e la copertura dei rischi di trasporto è fatta dal venditore/mittente per conto del compratore che è l’unico soggetto che può essere assicurato in quanto è quello tra i due su cui grava il rischio. Ove, invece, fosse il venditore/mittente che volesse far proprio anche questo aspetto del contratto, ossia il rischio di perdita e avaria, egli dovrebbe usare espressioni diverse quali, nel mercato interno, “Porto Franco rischio a carico del mittente”, o similari e, in quello internazionale invece, la più semplice e sicura DDU degli Incoterms, che sta per Delivery Duty Unpaid. Nel caso in esame, il compratore avrebbe potuto stornare autonomamente dalla fattura di acquisto la merce danneggiata solo se il contratto avesse espressamente attribuito al fornitore – con una delle espressioni citate – oltre agli oneri anche i rischi di trasporto. L’incompletezza dell’espressione – Franco Domicile Southampton – gli nega questa possibilità.

di Maurizio Favaro