Il freddo mal si accorda col nostro ideale gastronomico  poiché nella cultura occidentale la cucina è sinonimo di metamorfosi operate col fuoco.

indispensabile-fredda-dipendenza-tecnologica-articoloC’è la “freddezza” che regna in molte famiglie dove il cibo è trattato alla stregua di un orpello irrimediabilmente necessario; c’è il “gelo” che si respira in certi ristoranti e quello che salta agli occhi alla vista di derelitti buffet di antipasti; ci sono i menù “raggelanti”, la cucina “agghiacciante” dei bruciapentole, la “freddezza” dello chef che non ti fa un sorriso nemmeno a pagarlo. Per non dire dei piatti di pasta, dei risotti e delle carni “freddati” in attesa che un cameriere demotivato si degni di servirceli a tavola. Non c’è che dire, il freddo mal si accorda col nostro ideale gastronomico poiché nella cultura occidentale la cucina è sinonimo di metamorfosi operate col fuoco. Lessare, friggere, arrostire, brasare, grigliare, soffriggere o semplicemente scaldare, sono trasformazioni alle quali la sottrazione di calore pregiudica non solo il gusto ma anche gran parte dell’alchimia e del valore simbolico della cottura. In estate, una pasta o un riso possono essere concepiti e realizzati per essere serviti freddi, ma anche in questo caso si tende a giustificare la loro imperfezione formale rinominandoli “insalata” o, nel caso delle carni (roastbeef, vitello tonnato, carpaccio ecc.) trattandoli alla pari di un qualsiasi affettato. Eppure il freddo è un componente fondamentale dell’alimentazione fin dai tempi più remoti e oggi nessuno riesce a pensare un ambiente cucina privo di frigorifero, l’ingombrante elettrodomestico che ha cambiato il nostro rapporto col cibo: dalla pianificazione degli acquisti alla scansione dei pasti. A questo proposito è importante ricordare che frigo e freezer di casa non sono cambuse in cui affastellare il cibo confidando in una improbabile immortalità, ma ambienti di sosta temporanea in cui si annidano eserciti di batteri e plotoni di odori più o meno gradevoli: svuotarlo e pulirlo regolarmente migliora la qualità dei cibi e quella della nostra vita. Tutto ciò che mangiamo dipende dall’applicazione di tecnologie che fanno ricorso alla tecnologia del freddo per rallentare o arrestare i processi degenerativi dei cibi, consentendoci una disponibilità e una varietà di ingredienti che solo cinquant’anni fa era impensabile. Se nei ristoranti e nelle mense mangiamo con tranquillità i cibi che ci vengono serviti è perché nelle cucine ci sono frigoriferi, congelatori e soprattutto abbattitori di temperatura capaci di scongiurare – se non l’incapacità del cuoco – le tossinfezioni, le intossicazioni e le possibili alterazioni dei cibi crudi o cotti. Ciò nonostante il nostro palato e il nostro cervello sono disposti ad accettare i cibi caldi molto più dei cibi freddi. Non solo per motivi psicologici o sociali ma anche per ragioni fisiologiche. L’ingestione di cibi a temperature sensibilmente inferiori a quella del nostro corpo obbliga l’organismo a un superlavoro
per riscaldarli e, nel caso di temperature notevolmente basse, esofago e stomaco (ma anche denti e nervi palatini) possono andare in tilt e subire gravi danni. In buona sostanza, quanto più un cibo è freddo tanto meno ne percepiamo il sapore poiché le fibre nervose che collegano le papille gustative al cervello si rifiutano di trasmettere gli stimoli. Ma non basta, perché la temperatura bassa dell’alimento ne blocca i profumi a causa della minore volatilità (o tensione di vapore) delle sue molecole odorifere. Se bere uno champagne o una birra sotto i 5 gradi equivale a buttar via gran parte del loro piacere organolettico, resta solo da capire perché mangiamo con (tanto) gusto l’unico cibo che ci viene sempre servito a -15°C: il gelato. I ricercatori dell’Università di Cardiff (GB) sono giunti a una conclusione che ha a che fare col nostro più remoto passato. È risaputo che il genere umano nasce in un ambiente tropicale, dove gli stimoli freddi vengono percepiti sulla pelle come sgradevoli e dove il clima favorisce l’evaporazione dell’acqua e induce la sensazione di sete come stimolo ad equilibrarne la perdita a livello cellulare (omeostasi). In questa situazione l’ingestione di sostanze fredde attiva dei meccanismi biochimici che partono dalle mucose orali e riescono a ripristinare parzialmente l’omeostasi regolando la temperatura del corpo. In parole povere un cucchiaio di gelato riesce a convincere il nostro cervello “antico” che non moriremo di sete, mentre la sensazione dolorosa indotta dai -15°C viene mitigata dalla presenza di aria all’interno del gelato (overrun) che separa e rende meno aggressivi i cristalli di ghiaccio conferendo leggerezza e sofficità al gelato. Mano a mano che il gelato si scioglie in bocca, le papille gustative si risvegliano e permettono alla lingua di percepire le diverse sfumature gustative mentre i vapori delineano le componenti aromatiche nel retrobocca, dove gusto e olfatto s’incontrano. Tutto avviene nel migliore dei modi quando si mangia il vero gelato artigianale, che non è il roccioso ice-cream degli statunitensi né quello industriale, gonfio e tronfio, e ancor meno quello rabberciato con indegne ciprie lattose, aromatizzanti e coloranti industriali, ma quello fatto dai bravi gelatieri (e non gelatai) italiani con puntigliosa quotidianità, scavando nell’identità territoriale, rincorrendo il latte perfetto, le uova eccellenti, la vaniglia esemplare, il cioccolato più intenso e le frutta più fresche.