In America si fa un gran parlare degli hamburger dal sapore di carne, ma prodotti senza alcun utilizzo di carne animale. Due le principali aziende leader nella produzione di questi burger: Impossible Foods, che utilizza una molecola derivata dalle proteine di un tipo di soia geneticamente modificata, l’eme, che è il responsabile di quel senso di salivazione indotto anche solo dal pensiero di un hamburger, per simulare non solo il sapore ma la sensazione tattile del classico hamburger di carne. Il sangue della carne viene invece simulato con succo di barbabietola nella seconda azienda del settore, la Beyond Meat, i cui prodotti sono disponibili in Italia. Proteine dei piselli, fagioli mung e olio di cocco gli ingredienti del Beyond Burger. In entrambi i casi, l’impressione di mangiare carne vera è così realistica che vegani e vegetariani non solo non sembrano particolarmente colpiti da queste alternative, preferendovi burger vegetali di legumi o quinoa, ma ne sono addirittura nauseati. In Italia l’hamburger non è un’istituzione culturale come negli Stati Uniti. Non sorprende dunque l’enorme successo oltreoceano di questi prodotti, pensati per un target di consumatori carnivori ma responsabili (i cosiddetti flexitarian, carnivori ma disposti a limitare il consumo individuale di carne per ragioni etiche). Si tratta di un dato interessante: indica, da un lato, un cambiamento promettente nelle abitudini alimentari dei carnivori e un tentativo di introdurre più varietà e alternative responsabili nella dieta. Dall’altro, però, controversa è, nonostante l’illusione del sapore, la sostenibilità di questi burger dal punto di vita della salute. Si tratta di prodotti altamente lavorati e pieni di grassi saturi (contengono olio di cocco o olio di colza negli ingredienti). Secondo l’Harvard Health Blog, “producing the newer plant-based burgers requires considerably less water and generates substantially less greenhouse gas emissions compared with traditional beef burgers. This is certainly an important consideration for the well-being of our planet, but they may not be the best option for the health of our bodies”. In effetti la FDA, la Food and Drugs Administration (l’ente federale che si occupa di regolamentare prodotti alimentari e farmaceutici) non ha ancora approvato l’eme, che oltre ad essere una creazione in laboratorio, è stato prodotto attraverso sperimentazioni animali (motivo di critiche feroci da parte dei vegani e vegetariani), e a partire dalla soia, una monocultura il cui effetto dannoso sull’agricoltura mondiale è attestato. Orientare i propri consumi verso scelte alimentari più consapevoli e sostenibili non deve essere un gioco al ribasso: non si possono preferire alternative meno sane solo perché più sostenibili. Qualche tempo fa, la cantante di fama mondiale Billie Eilish ha giustificato la sua scelta di essere vegana con la frase, ormai iconica: perché devi mangiare un animale morto quando puoi mangiare un pacco di patatine? Perché, le risponderei, mangiare un pacco di patatine non è mangiare. Mangiare peggio per risolvere i problemi del mondo è l’ennesima forma di evasione – da noi stessi, dalle nostre responsabilità, dai nostri fallimenti come specie. Come coniugare sostenibilità ambientale, rispetto per gli animali e salute individuale? Una rivoluzione nel gusto sembra profilarsi come l’unica opzione a nostra disposizione. Lo chef Dan Barber alcuni anni fa ha ideato per la nota catena di fast-food americana Shake Shack un burger di scarti di estratti di verdura (il famoso ‘pulp burger’), e recentemente proposto suo profilo Instagram un mushroom burger – un invitante fungo portobello impanato, fritto e inserito nel celebre bun, il soffice panino tipico dell’hamburger. Invitando a considerare tutte le alternative possibili, prima di consumare quelle impossibili. In modo analogo, Brooks Headley, proprietario dell’iconico ristorante newyorkese Superiority Burger, famoso per i suoi gustosi hamburger di origine esclusivamente vegetale, ha espresso una preoccupazione analoga. Perché i brevetti degli hamburger impossibili non sono di pubblico dominio, si chiede in un’intervista? “La Silicon Valley vuole sostituire la proprietà intellettuale al consumo di carne”, conclude amaramente. Un’altra alternativa interessante nel panorama europeo è la Wild Meat Company, un’azienda inglese che utilizza esclusivamente scarti di selvaggina per produrre burger dal sapore non convenzionale. E, ironicamente, ci invita a interrogarci sul valore della caccia nelle società contemporanee, un tema che nel dibattito pubblico è raramente associato alla possibilità che esista una “caccia sostenibile”. Io ho provato il Beyond Burger, ma non ne sono rimasta convinta. Quel suo tipico umami che tutti apprezzano, a me è sembrato un sapore troppo persistente di fungo che mi ha fatto sentire, in un colpo solo, la mancanza sia della carne, sia dei funghi. Se un futuro senza carne è quello che ci aspetta, preferisco accettarlo che permettere a un surrogato di ricordarmi, vagamente, il sapore succoso della carne. La nostalgia è ancora più accecante.

di Francesca Iurlaro