Nella Roma del VI secolo a.C. i cereali si consumavano solo in forma di “puls”, una polentina molliccia, quasi un pudding di farro o orzo. Furono i panettieri greci portati a Roma come schiavi tra il III e II secolo a.C. a convincere i romani ad adottare sia il pane – ad Atene se ne producevano oltre 70 tipologie – che i “làganoi”, dei dischi di pasta confezionati con acqua e farina, cotti al forno, alla griglia o fritti, tagliati a pezzi e serviti con legumi e verdure. I romani trasformarono i legano in làganae” che divennero una vivanda comune, veloce da realizzare in casa e venduta dai panettieri e dai frictellaria ambulanti. A proposito di questo antico comfort-food, il poeta latino Orazio (I secolo a.C.) nelle sue “Satire” scrive: “amo gironzolare la sera per il Foro ad ascoltare gli indovini per poi tornarmene a casa al mio piatto di porri, ceci e làgane (inde domum me ad porri et ciceris refero laganique catinum)”. Non è dato sapere se quelle làganae accompagnassero le verdure al posto del pane o se fossero – come accade oggi nella cucina francese e tedesca con la pasta – un vero e proprio contorno. Qualche indizio in più ci viene da un testo del I secolo d.C., il De Medicina di Aulo Cornelio Celso, in cui le làganae sono descritte come un cibo soffice e gelatinoso, che non necessita quasi di masticazione, come le nostre lasagne, tagliatelle o fettuccine. Gli etimologi sostengono che la derivazione di “lasagna” dal greco làganon sia solo un’assonanza ingannevole e propendono per un’origine da làsanon, il nome greco di un largo tegame da appoggiare sulle braci utilizzando un basso treppiede. Per altri valenti studiosi, il termine “lasagna” sarebbe da ricondurre addirittura al persiano lawzēnak, un dolce di sfoglia e mandorle simile alla baklava turca che viene servito tagliato a “losanghe”. Sarà… Ma personalmente resto convinto che le lasagne, intese come strisce di pasta, siano figlie (o nipoti) delle làganae greche e romane. Nella lingua parlata quando si usa il termine “lasagna” (al singolare) non si intende il formato di pasta – una via di mezzo tra le “fettuccine” e le “pappardelle” – bensì quella specialità gastronomica realizzata con rettangoli di pasta sfoglia, generalmente all’uovo, lessati e disposti in teglia a strati, alternati con una farcitura che cambia in funzione delle tradizioni locali: dal ragù alla bolognese alla salsa di pomodoro napoletana, dal brasato di radicchio rosso trevigiano alle polpettine siciliane, fino alle rigaglie di pollo dei marchigiani “vincisgrassi”; si contemplano anche varianti nella pastafoglia che, nel caso della lasagna bolognese, può essere verde o che, in Sardegna, viene addirittura sostituita dal pane carasatu.

In queste preparazioni – talvolta chiamate “pasticci” – entra quasi sempre la bechamel come legante e il ripieno può essere arricchito con uova sode, prosciutto cotto, funghi, latticini (mozzarella, provola, formaggio grattugiato, ricotta), tartufi, ortaggi (piselli, melanzane, asparagi, zucchine…), pesto alla genovese, erbe di campo, germogli, spezie e aromi. Una lasagna al forno composta da più sfoglie di pasta (lievitata) condite con lardo e formaggio grasso, compare già nel Liber de coquina, il più antico ricettario di cucina dell’Occidente cristiano, scritto da un anonimo chef della corte angioina tra la fine del ‘200 e i primi anni del ‘300. Nello stesso periodo di lasagna parlano poeti come Jacopone da Todi (“granel di pepe vince per virtù la lasagna”), Cecco Angiolieri (“Chi de l’altrui farina fa lasagne, il su’ castello non ha né muro né fosso”) e da cronachisti come fra’ Salimbene da Parma che a proposito di un monaco affermava: “Non vidi mai nessuno che come lui si abbuffasse tanto volentieri di lasagne con formaggio”. È datata 1634 la ricetta di “lasagne di monache stufate, mozzarella e cacio” riportata dal napoletano G.B. Crisci nel suo libro La lucerna de’ corteggiani; si tratta del primo esempio di lasagna con formaggio a pasta filata e cotto nel forno.  Bisognerà attendere fino al 1881 perché, nel Principe dei Cuochi edito a Napoli, compaia per la prima volta il pomodoro. Nel libro “La Scienza in Cucina e l’Arte di mangiar bene” del 1891, Pellegrino Artusi, che pure era di origini emiliane, sorprendentemente non fa cenno ad alcuna lasagna benché celebri la salsa bechamel che lui chiama balsamella. Nel 1935 Paolo Monelli nel suo “Ghiottone errante” codifica la lasagna verde alla bolognese, in cui la sfoglia all’uovo è ottenuta impastandola con un trito finissimo di spinaci lessati. Fatto sta che dall’ultimo dopoguerra la lasagna (bolognese, napoletana, siciliana, genovese chessìa) ha preso pieno e gioioso possesso della tavola italiana delle feste. Spiace solo che questo sontuoso monumento di casalinga italianità venga spesso proposto unto, gommoso e scotto da rosticcerie di dubbia capacità. Peggio ancora nel rutilante mondo dei surgelati precotti in cui gran parte dei “pasticci” (in tutti i sensi) industriali che ho assaggiato si sono rivelati stracarichi di bechamel e panna, realizzati con troppa sfoglia grossa e gommosa che si attacca sia al palato che al piatto e che, dulcis-in-fundo, mi hanno lasciato in bocca solo il gusto di mediocre carne lessa macinata.