Tra le diverse procedure di cottura degli alimenti – bollitura, brasatura, stufatura, al vapore, al forno, alla griglia, allo spiedo ecc. – la “frittura” è una delle più recenti. Friggere infatti richiede una civiltà culinaria evoluta, in grado di produrre vasellame metallico (l’unico in grado di sopportare le alte temperature richieste) e di disporre in abbondanza di grassi in cui immergere gli alimenti. Non esiste alcuna prova archeologica o letteraria sul consumo o sulla produzione di cibi fritti nell’antico Egitto e tantomeno in ambito mesopotamico. L’affermazione che gli Ebrei durante il soggiorno nel deserto del Sinai (XIII sec. a.C.) praticassero l’arte della frittura è difficile da sostenere, per quanto nel Levitico (composto nel VII secolo a.C.) si prescriva ai sacerdoti di offrire a Dio assieme all’olocausto anche una “panatica” (farina intrisa di grasso) apparecchiata in padella; il risultato di tale pratica è indubbiamente una cottura a secco, o meglio un’arrostitura, sia pure in presenza di una minima percentuale di grasso. Il termine phryktòs compare nel mondo greco ad indicare alcuni cibi offerti ancora una volta alle divinità; lo si ritrova nei menù citati in commedie del IV sec. a.C. (Anassandride e Alexis) e ne fa menzione anche Ateneo di Naucrati (III sec. a.C.). Non è parso vero ad alcuni autori sfruttare l’assonanza del termine per dichiarare che nell’antica Grecia si friggevano gli alimenti ma sarebbe bastato un banale dizionario di greco antico per scoprire che quel termine è il participio passato di phrygein (tostare) e che i phryktòs erano dunque cibi tostati: granaglie, mandorle, nocciole che, peraltro, Menandro descriveva come mediocri e volgari. Di frittura vera e propria – quella che rende i cibi croccanti fuori e morbidi dentro – non si può parlare nemmeno a proposito degli antichi romani per i quali il verbo “friggere”, mutuato dal greco, era quasi sinonimo di torrere (seccare, abbrustolire) quasi sempre riferito a ceci, lenticchie, fave, orzo e addirittura sale. In merito poi al “friggere” i cibi umidi come carni, pesci o vegetali, gli scrittori latini come Marziale, Plinio il Vecchio e lo stesso Apicio lasciano intendere che fosse un metodo di cottura più vicino a una brasatura che a una frittura. Nel mondo romano si “friggeva” infatti non tanto in olio o grasso ma in altri liquidi, come il garum, il vino, il miele, l’aceto e l’acqua, purché ad alta temperatura e – come descritto da Nonio e Isidoro – provocando “sussulti e sfrigolìi” nella padella. In buona sostanza è solo con le invasioni arabe della Spagna e della Sicilia che una vera tecnica della frittura giunse in Europa. Nel mondo nomadico-pastorale del Maghreb già prima della venuta di Maometto si cuocevano verdure, carni e pesci nel grasso bollente ricavato dalla coda delle pecore, chiarificato e deodorato secondo tecniche già note nel VI sec. a.C. ai persiani che avevano appreso la tecnica della frittura dai cinesi. Questi infatti avevano affinato la loro ars-frictoria già nel XV sec. a.C., possedendo una grande abilità nella lavorazione dei metalli e nell’estrazione dell’olio da semi di sesamo, soia e canapa. Ai cinesi va riconosciuta anche la paternità del più antico ed efficace utensile in cui friggere: la wok. Questa padella semisferica a uno o due manici è da millenni lo strumento di cottura fondamentale – se non l’unico – della cucina cinese. La forma semisferica fa sì che la wok venga letteralmente abbracciata dal fuoco; la ghisa di cui è fatta accumula moltissimo calore, mentre il fondo concavo invita a usare minime quantità di olio o grasso. Friggere in una wok di ghisa garantisce risultati eccellenti con il minimo consumo d’olio e di combustibile, purché si muovano regolarmente i cibi in cottura con i classici “bastoncini” o con un cucchiaio, in modo che quelli già a contatto con l’olio bollente sul fondo cedano il posto ai pezzi sovrastanti e risalgano lungo le pareti da dove, per gravità, torneranno a scivolare nell’olio. Indipendentemente dal recipiente e dall’olio usato, il pregio di ogni frittura sta soprattutto in un costante controllo della temperatura dell’olio e nella capacità del cuoco di cogliere il momento in cui l’involucro esterno ha raggiunto la croccantezza e la doratura voluta grazie alle reazioni di Maillard. Ma sugli aspetti tecnici e creativi questo numero di Zafferano sarà una inesauribile miniera di informazioni, suggerimenti e ispirazioni.