La proposta del piatto unico, soprattutto la sera, non risulta una scelta strategica nella gestione attuale di un locale. Per lo meno, è un concetto che è stato snaturato col passare del tempo, in funzione di operazioni di marketing volte a massimizzare i guadagni, riducendo il più possibile costi e sprechi. In quasi tutte le culture, da sempre, si possono trovare esempi assimilabili al principio del piatto unico. Al momento di ottimizzare i tempi del pasto, si cerca di concentrare i nutrienti in un numero minimo di portate, costituendo piatti i cui ingredienti coprono tutti i componenti della piramide alimentare: dall’orientale sushi, in cui carboidrati, proteine e vegetali sono armoniosamente costruiti fino ad ottenere piccoli e sfiziosi rotolini, passando per il mediorientale kebab, in cui un guscio di pasta di pane (carboidrati) raccoglie vegetali e carni di agnello o pollo (proteine) condite con salse più o meno piccanti, fino ad arrivare alle tipicità italiane come la pizza, le insalate di pasta o di riso. Il risultato è comunque sempre il medesimo: seduti a tavola, si consuma il piatto, si beve qualcosa e il pasto è terminato, magari con l’aggiunta di un frutto, pronti a ripartire per le attività pomeridiane. Le logiche di mercato attuali hanno portato ad individuare due dinamiche commerciali che hanno stravolto completamente il concetto di piatto unico tradizionale, incentivando la permanenza nel locale e i consumi da parte del cliente, favorendo un maggiore margine economico per il gestore. La prima, l’”all you can eat”, tipica formula dei ristoranti asiatici nel nostro paese, e la seconda, il buffet, che ha invaso, negli anni passati, prima della pandemia, qualunque locale offrisse una proposta di apericena o simili, presentando decine di pietanze definibili” “piatti unici” dai quali il cliente poteva servirsi liberamente anche più volte. Il piatto unico non è più tale, ma diventa una serie di piatti di assaggi misti, perdendo la completezza nutritiva sia del piatto che della porzione. Il palato del cliente, d’altra parte, ha le sue necessità ed è sicuramente più gradevole ed invitante poter spizzicare da vari piatti ed in piccole quantità che consumare un unico piatto, modalità che, oltretutto, spinge a consumare qualche bicchiere in più. Se da un lato il commercio si è allontanato dal piatto unico, per incentivare le vendite, la corrente del mangiare sano e dell’attenzione all’alimentazione ha effettuato studi per costruire il perfetto piatto unico: sul sito dell’università di Harvard (https://www.hsph.harvard.edu/) è possibile trovare in 25 traduzioni differenti la guida alla costruzione del piatto unico corretto: il 50% del piatto deve essere costituito da vegetali, 25% da proteine e il restante 25% da carboidrati, cereali, farine e patate, con moderato uso di grassi nei condimenti. Tale proposta viene spesso reperita nei locali di macrobiotica o nei centri benessere, che propongono piatti con tre pietanze diverse, rigorosamente divise nelle dette proporzioni, mantenendo una mise en place invitante. È comunque piacevole constatare come le stesse proporzioni si ritrovino abbastanza fedelmente nei piatti unici tradizionali, nelle insalatone proposte come pranzo in molti bar, nei piatti di verdure da gastronomia come la parmigiana di melanzane, nelle verdure ripiene, aggiungi tajine. Forse nella pizza la componente di carboidrati è un po’ più alta rispetto alla percentuale proposta dagli esperti, ma chi può rinunciare ad una pizza fatta come si deve, accompagnata, magari, da una buona birra artigianale alla giusta temperatura?