Quanto ho pianto quand’ero ragazzino, ricordo che gli occhi erano gonfi quando mio padre, in cucina, continuava a grattugiare la nobile radice di rafano. Chi entrava in cucina piangeva, ma era un pianto di gioia, perché sapevi a cosa serviva quel continuo grattare. Ovviamente nessuno osava indossare un bel paio di occhiali da sci per evitare il pianto da rafano, bisognava soffrire. Bene, una volta grattugiata la radice, papà lo invasettava, aggiungendo del pane grattato, un pizzico di zucchero e il tutto veniva ricoperto di finissimo aceto bianco. Il gioco era fatto, lo si metteva nella dispensa e si aspettava il lungo inverno per accompagnare il divenuto “cren” a fantastici bolliti. Cotechini, lingue, testine di vitello, petti di galline, insieme a odori, come carote, cipollotti, gambi di sedano, cuocevano per ore a fuoco basso invadendo la casa di profumi indelebili. Per me quello è sempre stato, e sempre lo sarà, “il profumo di casa”, quel profumo che ti mette gioia, calore affetto, che ti fa dimenticare quello che c’è fuori. Una volta pronto, il tenero bollito veniva adagiato in un grande piatto da portata, e messo al centro della tavola, ed ecco apparire il vaso di cren. Quel pizziccorio he sentivi nelle narici era la sublimazione di questa fantastica salsa unita alla carne, e non poteva mancare un soffice purè di patate. Le stesse emozioni le ho provate andando nei buffet triestini, in particolare, nel più famoso, “Da Bepi Sciavo”, dove alla mattina di buonora, enormi pentoloni accoglievano carni profumate, come la porzina, il musetto, salsicciotti, grossi wurstel bianchi, salsicce di Vienna, il prosciutto cotto, che veniva servito, caldo, tagliato spesso, con una grande nevicata di rafano grattato al momento. Solo il pensiero mi fa venire l’acquolina in bocca. Mi trovavo, un giorno, nel mio solito rifugio, al “Fuciade”, a cercare un po’ di ispirazione, di tranquillità che solo questo luogo incantato mi sa dare, e quel giorno avevo voglia di mangiare qualcosa di diverso, non avevo le idee chiare. Allora Martino – bravissimo cuoco, che, insieme alla mamma Manuela e al papà Sergio, conduce questo paradiso – mi propone di assaggiare un panino. Accetto. Poco dopo, Martino esce dalla cucina con un panino fumante che mi ispirava fin dal primo sguardo. “Ecco, questo è il Panino Ladino, Alberto, assaggialo. “Non me lo feci dire due volte, era buonissimo, un pane di segala farcito con formaggio Puzzone di Moena, speck e rafano grattugiato. Non nascondo che ne mangiai tre, tanto erano buoni, accompagnati da un buon vino Teroldego, tipico vitigno Trentino. Ma allora perché Martino, questo panino lo ha chiamato Ladino? Questa parola deriva dal nome di un popolo germanico che, secoli fa, scese dal nord per stabilirsi nelle valli dolomitiche, in particolare nella fiabesca Val di Fassa. I ladini erano bravi contadini, allevatori, curavano i boschi, facevano formaggi, portarono le loro tradizioni che ancor oggi sono ben radicate nei fassani. Ancora oggi nelle scuole si insegna la lingua ladina che tanto onore fa a chi la impara. Andiamo a scoprire che cos’è e come si fa il formaggio Puzzone, unico al mondo. Il Puzzone si produce in tutta la Val di Fassa, è un formaggio fatto con latte crudo di vacca, ha la pasta morbida dal colore giallo paglierino. Il forte odore che emana la crosta deriva dal continuo lavaggio delle superfici del formaggio con acqua tiepida per impedire la formazione di muffe. Viene lavato tre volte alla settimana, per un minimo di tre mesi, ma la cosa incredibile è che la pasta è dolce, suadente e non viene assolutamente intaccata dall’odorosa crosta. Alla fine, il successo di questo panino è proprio il rafano che riesce a legare il formaggio, lo speck, e il pane di segala. Provare per credere e buon panino a tutti!