Primi decenni del 1600, Italia settentrionale; diciamo tra Bologna e Bergamo. Giulio Cesare da San Giovanni in Persiceto non sa proprio come chiudere questa storia in modo brillante: ha inventato un sacco di finali girovagando per le fiere, i mercati, le corti dei signori e le case patrizie, ma nessuno di questi lo soddisfa. Fa il cantastorie, prendendo spunto dai racconti delle avventure che ha sentito da bambino e che lui ripropone, mettendoci tanto del suo. Riprende in mano la penna d’oca cercando l’ispirazione in mezzo al baccano della lurida locanda, in cui s’è fermato per passare la notte. Ubriachi cantano canzoni scurrili fra le risa di donne distrutte dalla fatica del lavoro duro dei campi. L’oste gli ha servito una zuppa di bietole da orto e carote. Una brodaglia che ha avuto il solo merito di inzuppare il pane duro che Giulio Cesare si portava dietro da giorni, come scorta alimentare in caso di impossibilità a raggiungere un tetto ospitale. Intinge la penna nell’inchiostro ma la mano resta immobile: niente, non viene in mente niente. Poi, sfiduciato, gira lo sguardo verso un ragazzetto seduto a fianco del focolare e lo vede mordere con voracità una rapa rossa, cercando, nel frattempo, di farsi entrare nella bocca piena una cucchiaiata di fagioli. – Eccolo il finale! – gridò lo scrittore, facendo sobbalzare il sonnacchioso compagno di tavolo. – Ecco come andrà a finire: il mio contadino brutto, deforme, tanto da parere un orso, morirà alla corte del re Alboino, avvelenato dai cibi troppo raffinati, lui, uomo semplice della terra, che avrebbe voluto nutrirsi di rape e fagioli. Giulio Cesare Croce stava per completare la novella di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno.
Dello stesso autore il romanzo: “Le tue valigie sono dalla vicina” – Biblos Edizioni srl