Gli Stati Uniti rivendicano la paternità dell’hamburger, il fast-food più consumato e globalizzante del pianeta. Possono, forse, vantare il copyright sul nome con cui chiamiamo la millenaria polpetta di carne macinata, ma il loro apporto creativo si ferma a due fette di pane e poco più. Infatti, dall’alba del genere umano non sprecare sostanze nutritive è sempre stata una priorità assoluta. Lo dimostrano le decine di migliaia di raschiatoi in selce emersi nelle grotte e nei ripari del paleolitico in tutto il mondo; servivano agli antichi cacciatori per recuperare dalle carcasse degli animali uccisi ogni prezioso frammento di carne con cui realizzare le loro brave archeo-polpette. Perché la natura della polpetta, (non diversa da quella di salsicce e salumi a cui essiccazione, salagione e affumicatura consentono una “lunga vita”) è quella di cibo di recupero e di necessità, figlio di un’economia alimentare oculata e previdente che ha segnato la storia del genere umano e di cui oggi proviamo imbarazzo se non vergogna. Resti di impasti di pesce, alghe e cereali di forma globulare sono stati rinvenuti in tombe egizie del XVIII sec a.C., e anche nell’Atene di Pericle si consumavano “schiacciate” di carne e sangue suino mescolate a orzo e legumi. Gli straordinari affreschi rinvenuti in una tomba etrusca scoperta nei pressi di Orvieto alla fine dell’800 mostrano la preparazione e il servizio di un banchetto nobiliare del IV° secolo a.C.. La scena, lunga decine di metri, presenta numerosi animali eviscerati e appesi, una dozzina di servitori addetti alla macellazione, alla preparazione delle carni, alla cottura e all’allestimento dei piatti da servire al defunto. Tra loro uno, in piedi davanti a un ampio cratere-pestello in bronzo, è intento a triturare e impastare qualcosa. Gli studiosi, considerando che in tutta la scena domina la carne, ritengono che quel servo fosse addetto alla preparazione di polpette di carne, cibo abbastanza comune all’epoca. Sempre del IV sec. a.C. è una cista (contenitore cilindrico in bronzo) rinvenuta a Preneste su cui è incisa la figura di un uomo intento a macellare un animale mentre alle sue spalle un altro cuoco porge un vassoio colmo di pezzi rotondi di carne a un collega. Come in un moderno fumetto il primo esclama “ho fatto”, al che l’altro replica “preparane ancora”. Molti studiosi ritengono che una prima codificazione “moderna” della polpetta risalga all’ambito persiano e sia addirittura precedente alla conquista di Alessandro Magno. Tra Babilonia e Susa era comune in tutti gli strati sociali consumare un impasto di carne bovina, ovina, suina o di pollo, tritata o pestata assieme a riso, bulghur o lenticchie. La chiamavano kuftan (battuta, pestata), parola e significato rimasti pressoché inalterati (kofta, kefte, kufta) in molte lingue orientali, dalla Grecia all’India. Solo in Turchia oggi esistono 291 differenti varietà di kofta, generalmente di forma ovoidale e più spesso sigariforme. Nei primi ricettari arabi la kofta è definita come un impasto di carne d’agnello delle dimensioni di un pugno di bambino, ricoperto con tuorlo d’uovo e zafferano. Numerose sono le antiche ricette rigorosamente vegetariane in ambito indiano tra cui le celebri lauki kofta, shahi aloo kofta e malaai kofta. Nulla autorizza a pensare che sia stato Alessandro Magno ad esportare dalla Persia al mondo greco-romano la kofta poiché, come abbiamo visto, con i ritagli di carne e con gli avanzi di cucina il mondo intero ha saputo fare di necessità virtù. È appena il caso di ricordare che nel XIII° sec. le truppe mongole di Gengis Khan soggiogarono un immenso impero nutrendosi con fettine di carne frapposte tra la sella e la groppa del cavallo. Per quanto l’afrore di quella “ciccia” ridotta in poltiglia e macerata dal sudore dell’animale non dovesse essere entusiasmante, l’avere a portata di mano il cibo quotidiano a base di carne cruda senza scendere da cavallo (lo stesso Gengis Khan si vantava di aver passato l’intera vita sul suo destriero) offriva ai guerrieri mongoli un notevole vantaggio in termini di efficienza e velocità. Ma restiamo nell’ambito del cotto. Scorrendo il ricettario attribuito ad Apicio (II/IV sec. a.C.) ci si imbatte in diverse varietà di polpette: di carne, di pesce, di verdura, tutte più o meno arricchite di spezie e insaporitori. È qui che troviamo il vero antenato dell’hamburger, cucinato su griglie di ferro dopo essere stato avvolto nella retina (omento) che avvolge lo stomaco del maiale, in modo che, con la cottura, il grasso renda morbide e saporite le carni; una sorta di “Mc Apicius” venduto nei fast-food dell’epoca (i thermopolia) sotto il nome di “isicia omentata”. Ecco la ricetta: “Prendi carne tritata con mollica di pane tenuta a bagno nel vino. Pesta insieme pepe, liquamen – sostituibile con pasta di acciughe – e, se lo vuoi bacche di mirto a cui avrai tolto il nocciolo. Forma delle polpettine nelle quali metterai grani di pepe e pinoli. Avvolgile nella rete e falle rosolare nel vino rosso dolce”. “Ballotte”, “pillotte” e “globula” di povere carni mescolate a farina, pane stantio, grano o legumi hanno sfamato ampi strati di popolazione nel medioevo e non solo in Italia. Nella Spagna Moresca del ‘300 le conoscevano come albóndigas, mutuando il nome dall’arabo al-bunduq (nocciola); in Francia come rissoles, dal latino russeulus (rossastro) e in Gran Bretagna faggots. Trattandosi di cibo estremamente popolare è stato praticamente ignorato dalla cucina nobiliare medievale, unica destinataria dei primi ricettari. Benché la parola “polpetta” compaia nell’opera quattrocentesca di Maestro Martino, lì viene riferita a degli involtini di carne farciti e cotti allo spiedo. Solo un secolo più tardi, Cristoforo di Messisbugo le annovererà nella sua opera con una compiuta dignità benché ancora in forma di involtino: Polpette sutte piene, Polpette fritte in baffetta, Polpette in sapore, Polpette di carne in tiella. Nel XIX secolo, più o meno all’epoca in cui pellegrino Artusi scriveva la sua ricetta delle polpette precisando che “è un piatto che tutti lo sanno fare cominciando dal ciuco, il quale fu forse il primo a darne il modello al genere umano”, milioni di europei si imbarcavano sui piroscafi per attraversare l’Atlantico e realizzare il loro “sogno americano”. In uno di questi porti, Amburgo, la bistecca di carne tritata di manzo (la meno cara e la più accessibile) era popolare fin dal medioevo e si era evoluta in una mescolanza di carne, sale, cipolle e pane grattugiato, che una volta affumicata poteva essere conservata a lungo. Ben presto gli emigrati tedeschi sbarcati a New York iniziarono ad addolcire la nostalgia di casa con il gusto e il profumo della bistecca di Amburgo. Nella zona portuale della grande mela alla fine dell’800 si potevano incontrare dozzine di banchi e bancarelle che servivano “Hambourg’s style steaks”. Una nutrita comunità di immigrati tedeschi si era stabilita a Outagamie, in Wisconsin, dove Charlie Nagreen un americano che gestiva un banco di carni, ebbe l’idea di inserire quella polpetta piatta tra due fette di pane caldo, permettendo così ai lavoratori di consumare il loro pasto velocemente, senza sedersi e con una sola mano, vantaggio non di poco conto nel periodo invernale. L’idea tardò a prendere piede un po’ dovunque, finché nel 1904, alla fiera di Saint Louis in Texas, Fletch Davis propose la sua “hambourg-steak” dentro un morbido panino al latte aggiungendovi rondelle di cipolla cruda e lattuga. Il resto, volenti o nolenti, è storia attuale.