Lasciamo per una volta i nostri appuntamenti con “i grandi a tavola” per dare un contributo sempre attinente al tema alimentare, alle rievocazioni dell’entrata del’Italia nella Grande Guerra, da una prospettiva un po’ diversa da quella degli Storici. All’inizio del XX secolo gli italiani erano poco più di 34 milioni e di questi, 10 milioni erano contadini. Avrebbero costituito quasi la metà dell’esercito in grigioverde. Con tutti i riflessi socio- economici: dal miscuglio di dialetti spesso incomprensibili delle loro regioni d’origine, al basso indice di alfabetizzazione che complicava i rapporti, alle diverse produzioni agricole che p r o p r i o da questa t r a g e d i a avrebbero modificato costumi e tradizioni diffondendosi dalle trincee al gran mercato civile post-bellico: la pasta al posto del riso, il pane al posto della polenta, l’olio d’oliva al posto del lardo e dello strutto. Le esigenze belliche hanno accentuato, valorizzato e diffuso produzioni prima non molto diffuse, quelle della conservazione in scatola, dalla felice intuizione del francese Appert che già all’inizio dell’Ottocento propose frutta e legumi in contenitori di vetro, seguito dagli inglesi qualche decennio dopo brevettando le scatolette di latta per conservare gli alimenti. In Italia ci fu presto una proliferazione di aziende conserviere, alcune ancora sul mercato, dai piselli del piemontese Cirio, ai funghi della Valtellina, dalle carni bollite della milanese Simmenthal, dalla genovese Parodi, agli estratti di pomodoro della parmigiana Mutti e ancora al burro della Polenghi-Lombardo. Le scatolette destinate al fronte, tutte con i coperchi illustrati a colori e patriottiche immagini allegoriche, contenevano tonno, sgombro, alici e sardine, vitello tonnato, antipasti e mortadella, frutta candita, antipasti e perfino le birre della bellunese Pedavena, della triestina Dreher, dell’antica Maffei di Rovereto (poi Forst di Merano). Uno sforzo creativo industriale che in pochissimo tempo avrebbe rivoluzionato anche il nostro modo di mangiare e lo stesso sistema produttivo. E siamo alla Grande Guerra. Non che tutto questo arrivasse in trincea, anzi, quando il rancio con lo svilupparsi degli eventi bellici si era ristretto nei cibi, nella qualità e varietà e quindi nelle calorie (e questo anche per gli altri eserciti del conflitto), tutte queste cose erano diventate molto meno disponibili se non per il grande mercato civile lontano dal fronte. Un’altra evoluzione nel mondo delle conversioni alimentari, importante ma quasi ignorato, è quello delle attrezzature per cucinare sul posto o per portare i cibi caldi nelle trincee, dalle piccole cucinette, le famose “marmitte”, alle grandi cucine mobili ferme nelle retrovie. La retorica militare e savoiarda ha affidato gran parte della documentazione fotografica alle grandi battaglie e ai suoi protagonisti, al fronte, agli assalti e alle medaglie. Recuperare le attrezzature usate per sfamare milioni di soldati è stato il paziente lavoro dei collezionisti e dei recuperanti dei sempre più rari reperti raccolti sul greto e nelle trincee del Piave e degli altri teatri della Grande Guerra, dall’Ortigara al Montello e dintorni. A loro il merito di averci conservato con intelligenza e passione testimonianze storiche importanti, premessa di una crescita industriale e quindi civile che sarebbe presto seguita. (Le informazioni e la preziosa documentazione sono state tratte dalle qualificate relazioni del convegno organizzato a Sarmede il 24 maggio scorso, dalle delegazioni di Treviso Alta Marca e di Pordenone dell’Accademia italiana della cucina).