Perché non ci riesce di mangiarci il mondo senza fanatismi? Soprattutto quando l’amore per la propria terra diventa una regola gratificante per alimentarsi, per celebrare riti e liturgie sociali antiche e profondamente radicate nella coscienza collettiva. Vivere in rapporto simbiotico con la terra è un atto di amore. Tanto più benefico quanto più serenità e felicità ci regala. Se poi questa terra, la nostra, ci elargisce – in cambio solo di un po’ di rispetto e considerazione – meraviglie come il “fagiolo Zolfino”, il “peperone di Senise”, il “cardo gobbo di Nizza Monferrato”, il “radicchio rosso di Treviso” o il “limone di Procida”, l’adesione ai concetti di primarietà e indispensabilità di un’alimentazione eminentemente vegetale è assoluta, convinta e motivata. Il West non si conquista con l’insalata, dicevano i cowboys due secoli fa mentre toglievano le terre ai nativi americani. Lo slogan è stato ripreso dalla potentissima industria della carne statunitense preoccupata della presenza di 10 milioni di vegetariani americani dichiarati, e di altri 20 milioni di persone che hanno drasticamente ridotto il consumo di carne. La scelta di uno stile di vita vegetariano è una manifestazione della personalità dell’individuo e come tale va rispettata anche se non necessariamente condivisa.

Decidere di non mangiare carne è una scelta contraria non solo alla nostra prassi alimentare ma soprattutto alle nostre necessità nutrizionali (ne sono convinto oltre ogni ragionevole dubbio) ma essere vegetariani non è una colpa. Almeno fino a quando le proprie convinzioni non ledono la libertà di chi non le condivide. La scienza ufficiale ritiene che chi consuma molta frutta e verdura e poca carne, sia meno soggetto a malattie dell’apparato cardiovascolare, a tumori, ipertensione, diabete. Giusto, giustissimo, ma un conto è ridurre o evitare – per scelta o per convinzione, spesso anche per convenzione – altro il condannare, a ogni piè sospinto e con veemenza fondamentalista, l’uso di qualsiasi prodotto animale sulle tavole del prossimo. Peggio ancora quando il vege-talebano si arroga il diritto di imporre le proprie scelte dogmatiche ai figli. Cerco di spiegarmi meglio, se a qualcuno interessa. Ogni tanto mi tocca la disgrazia di condividere la tavola con qualcuno di questi  vegetariani modaiolo-integralisti. Parlo di una tavola normale, occidentale, ragionevolmente onnivora com’è da millenni. Il pranzo si trasforma mano a mano in sventura. L’inappetenza del neo-radical-veg di turno contagia tutti i commensali, spegne l’entusiasmo del convivio, avvilisce il cuoco e il fornello. La cucina vegetariana, fuori dagli ambiti in cui è nata e prospera (magnifica e munifica) da millenni, non mi risulta sia riuscita a creare un solo piatto memorabile. Anzi, ne ha rovinati troppi. Ho il diritto di scegliere ciò che mi piace? Bene, perché allora mentre sto per addentare la prima forchettata di amatriciana mi sento osservato con ribrezzo dal tristo figuro, che si ripara dietro la sua verdurina con noci e sesamo? E perché mentre trito con goduria tra i molari i ciccioli di guanciale splendidamente rosolati nel lardo, lui mugugna che se fossi nato maiale non sarei felice di ciò che sto facendo? Ma io non sono nato maiale… almeno in quel senso! Col formaggio non va meglio. Dovrei sentirmi in colpa per aver sottratto tutto quel latte ai vitelli, quegli stessi vitelli che son morti per farsi mangiare da me sotto forma di lombatina o paillard? Ma perché il vege-talebano non si tappa la bocca con le sue politicamente-corrette polpette di seitàn o con i suoi sconsolatamente salutari germogli di soja? Tanta acredine e tanto astio sono sintomi patologici preoccupanti. Peggio dei rimbrotti dei fumatori pentiti! Se la sua è una scelta consapevole dettata dall’amore per ogni forma di vita, perché non riesce a provare anche un po’ di compassione (non voglio dire amore) per me, che mangio due fette di lingua salmistrata un paio di volte l’anno! Grazie al cielo i vegetariani non sono tutti così. La maggior parte è nobile nel cuore e nell’atteggiamento. Eppoi diciamola tutta, so bene che una bistecca richiede 4 litri di petrolio ogni giorno, dal pascolo al fornello, mentre una dieta vegetariana ne richiede la metà. E sono il primo a dire e a scrivere, da vent’anni che il grano utilizzato negli allevamenti da carne basterebbe a sfamare ogni giorno un miliardo e mezzo di persone. Ma è più forte di me, non mi riesce di odiare la carne e chi la mangia, non ne ho motivo e non ne ho voglia. Tra le poche certezze senza cui non potrei vivere, c’è che – a differenza delle carni – i singoli vegetali non hanno mai una reale completezza di aminoacidi: ai cereali manca la lisina, nelle leguminose non c’è la metionina. Inoltre l’assorbimento del ferro dai vegetali è scadente se rapportato con quello che si ha cibandosi anche di carne. Solo chi riesce a costruirsi un cocktail vegetale preciso e costante può garantirsi un’alimentazione proteicamente completa per quanto intricata, funerea e noiosa. E gli altri? Ecco, io sono troppo pigro per fare tutta questa fatica ogni giorno. Non obbligarmi (o sentirmi obbligato) ad abbracciare dei dogmi mi fa sentire  libero di scegliere ogni giorno come leggere la natura e il mondo. Quel mondo di piaceri buoni, belli, onesti e tentatori in cui il rosso della carne ha la stessa dignità del verde dei prati e del blu del cielo.