“Mangiare solo cibi sani e salutari, rifiutando quelli che la ghiottoneria può far apparire buoni”, scriveva intorno al Quattrocento Michele Savonarola, medico e scrittore padovano che nel suo “Libreto de tute le cosse che se manzano”  ha distribuito saggezza, andando ben oltre i suoi approfonditi studi umanistici e le sue estese professionalità mediche. Nel suo periodo ferrarese è interessante il collegamento con quanti in quei tempi si occupavano non tanto di dietologia, ma proprio di “cucina, cibi e il modo di conservarli”. Ecco perché malgrado i tanti secoli dalla sua pubblicazione il “Libreto” si è meritato l’attenzione di uno studioso di gastronomia come Massimo Alberini, padovano, cofondatore dell’Accademia italiana della cucina, illustre e compianto amico. Tutte descrizioni precise, molte attuali, altre mischiate ai richiami dialettali se non ai dubbi delle origini, il pane e i cereali minori, le fave (“pasto da vilano”), fagioli (“non convengono a sua Signoria perché manifestano la loro malicia”), la roviglia, i piselli (“dita presso noi bisi”), la senape (celebri le mostarde da Cremona a Cologna), il riso (poco nominato), le erbe  e i vegetali coltivati o spontanei, il cavolo, le bietole, il sedano, il prezzemolo, la rughetta (“eccita in maniera incredibile ai piaceri di Venere”), il radicchio (ortolano o silvestre, quest’ultimo oramai raro”). Severo il Savonarola con l’asparago (“poco nutrimento e non tropo bono”), onore ai capperi pugliesi, alla salvia, all’endivia, il radicchio spontaneo, quello verde, e quelli bianchi o rossi prodotti nel Veneto. L’autore dedica le sue schede anche all’aglio, alla cipolla e al porro definendoli “agrumi”, aranci e limoni sono a parte. Meritata attenzione all’uva anche se ferrarese e padovano sono provincie considerate tra le più povere di vini, ma anche ai fichi soprattutto secchi con noci e mandorle e sale. Immancabili mele, pere e pesche, ricette secolari, e con particolare attenzione dalla dietologia già da tempi lontani quando era d’obbligo rilevare le differenze tra i prodotti coltivati e quelli spontanei o selvatici. Per le ciliegie, dato il tema di questo numero di Zafferano riportiamo l’intero capitolo: “Le ciliegie vengono divise tra dolci e aspre dette marinelle: sono le seconde le nostre amarene o marasche. Si possono essiccare al sole e metterle poi a mollo, affinché divengano dilettevoli”. E poi le nespole e le giuggiole, il fico e i meloni, e le angurie, le noci e i pinoli, le castagne, le carrube, le rape e i funghi, tartufi. Non mancano galli e galline, carni popolari con tutti i richiami spesso divertenti, alle storie dialettali. Trattando di gastronomia, il famoso medico ha dato pochissima attenzione al suo Libreto e anche gli stessi biografi. Ma in questi tempi di nutrizionisti e dietologi, influencer e chef-docenti o docenti-chef, promotori vari e pubblicitari, la cucina è moda, socialità e perfino letteratura. Riscoprire il nostro mangiare nei secoli, almeno quello sopravvissuto è un impegno culturale. Ma torniamo al Savonarola e alle sue preziose schede. Lavorando da medico presso gran signori non dimentica i piatti di carne, specie se di selvaggina di pelo e di penna, la prima quasi esclusione di chi possedeva terreni e boschi. Ma andiamo per capitoli purtroppo molto riassuntivi: Del formento, I cereali minori, La fava, I fagioli, I legumi, La senape, Il riso, Le erbe, Degli agrumi, Dell’uva, Dei fichi, Delle radici e dei frutti, Dei volatili (“carne da zentili homeni”), Dei pesci di più sorte, con interessanti e sorprendenti differenze storiche tra valutato a seconda dell’habitat di provenienza. Delle uova, Dei formaggi, Delle acque (“l’acqua è vile perché comune agli animali”), quindi l’agresto, l’aceto, l’olio, Del miele, Dello zucchero, Il pepe, I chiodi garofano e altre spezie (“è primo dei sapori, che senza di lui pare di non poter fare buoni “) e infine il sale (“Il sal d’ogni vivanda é condimento”). Tutti capitoli di un Libreto che è un sunto di saggezza e una preziosa miniera di consigli di un mucchio di secoli fa. Conclude Massimo Alberini, “traspare da quanto egli (Savonarola) ha scritto nel suo libretto (scritto in volgare e non in latino lingua degli eruditi) la figura di un medico conscio che il suo sapere si basa sui Grandi, ma anche sulla saggezza di due popolazioni, la padovana e la ferrarese”. Una lettura piacevole, interessante, educativa che ci ricorda quella “cucina del territorio” che finalmente attualizza, esaltandole, le sue storiche virtù.