Adesso vanno molto di moda. Anche troppo, perché sostituiscono quasi sempre la cena. Cenare insieme è un’abitudine sana per i figli, è un rito familiare, un momento educativo e un’iniziazione alla vita sociale. Ora fa “figo” ostentare un calice di cristallo, agitarlo, annusarlo, atteggiarsi a grande esperto, tirarne fuori le essenze più strane e improbabili. A questi simpatici giovani ricordo che i nostri nonni avevano le stesse abitudini, quindi nessuno si è inventato nulla! Non c’erano i bicchieri di cristallo, ma quelli a doppio fondo e di vetro spesso, dove ci servivano il “paccato”, un vino di qualità discutibile, allungato con acqua o gazzosa, che accompagnava “l‘appetizer” di allora composto da “bicche” o “brustoline“, che erano i semi di zucca cotti in padella con il sale, i lupini che venivano messi sotto salamoia a depurare, o la fava bollita con acqua e sale. Ma la differenza sostanziale è che mentre i giovani d’oggi sono considerati “fighi“, i nostri nonni erano catalogati come beoni (e conseguenze ce le hanno raccontate le nostre nonne, maestre nell’uso del mattarello). I crostini con i “dentri” della cacciagione, quelli con il tartufo nero e il pecorino, quelli con la favetta e la pancetta croccante, fino a qualche anno fa costituivano i piatti di apertura della nostra tavola. L’insieme dei sapori con le diverse consistenze e componenti aromatiche venivano e vengono abbinate ad uno spumante brut metodo classico o fermentato in autoclave, metodo Charmat, fatte con uve prevalentemente di Verdicchio. Oggi si tende a non essere banali e qualche volta si esagera per stupire.  La cosa intelligente è saper cucinare i prodotti della terra d‘origine in maniera originale. Ecco, allora, che un tortino di ceci con una fonduta leggera di casciotta d’Urbino o di caciotta di pecorino profumata al rosmarino si abbina con il Bianchello del Metauro, ma anche con vini rosati derivanti da uve Sangiovese prodotte in loco. Stessa cosa per la “crescia sfogliata marchigiana” farcita con lo Sgambato di Mercatello al Metauro o con il Nobile prosciutto di Carpegna, che trova con il Roncaglia Bianco, IGT prodotto con uve Abanella e Trebbiano, un abbinamento di grande affinità. La crema di fava di Fratterosa guarnita con un braccio di polpo grigliato e pane grattugiato abbrustolito, insaporito con alice dell’Adriatico, si sposa mirabilmente con la Garofanata versione Spumante Extra Dry, prodotta con un’uva che in zona ha lo stesso nome del vino. L’involtino di melanzana farcito con la ricotta e pecorino semi stagionato, passato al forno e cosparso di zabaione di Sapa, lo abbiniamo ad un Pinot Nero che in terra marchigiana viene coltivato da più di due secoli. Il filetto di tonno dell’Adriatico scottato in padella con finocchio selvatico, altre erbe aromatiche e pepe aromatico, servito su un’insalata primaverile di erbe spontanee e mandorla a lamelle, chiama a sé il Verdicchio Classico Superiore dei Castelli di Jesi. Il Ciauscolo di Montevidon Combatte e l’oliva ascolana di Ze Migliori amano essere accompagnate dal vino Pecorino Vigna Giulia, prodotto da Emanuele da Carassai. Concludo con un consiglio. Noto che per questi “happy hour” si predilige un vino importante e non si dà assolutamente importanza al cibo: non c’è niente di più sbagliato. Così facendo si riduce fino a rovinare la piacevolezza del vino. Il modo più consono per il massimo della gradevolezza è quello di abbinare un vino appropriato ad un cibo di altrettanta qualità perché l‘abbinamento giusto serve per valorizzare il piatto e il vino stesso.