L’horror vacui (orrore del vuoto) è un concetto che si fa risalire ad Aristotele secondo il quale in natura non esistono spazi privi di materia.
Nella cultura occidentale il vuoto è un’entità astratta ma presente, che fa paura, che genera confusione, che ci spinge ad aggiungere, sovrapporre e riempire per dimostrare a noi stessi di poter controllare lo spazio.
Che sia l’horror vacui la ragione che ci spinge a imbottire un calamaro, a farcire un pollo, a riempire di riso un pomodoro? Il latino “farsus” è participio di “farcīre”, verbo che nell’Antica Roma indicava il riempimento delle preparazioni di carne o pesce.
Curiosamente l’italiano “farcia” ha la stessa etimologia di “farsa”, cioè quella forma di spettacolo breve, ironico e dissacrante che nel Medioevo riempiva i tempi morti delle lunghissime rappresentazioni sacre.
Nel testo del II sec. d.C. attribuito ad Apicio si legge di un “leporem farsum” cioè una lepre riempita con un miscuglio dalle sue interiora assieme a pinoli, mandorle, noci e pepe, cotta al forno avvolta da cotenna di maiale; Nello stesso ricettario si trovano anche istruzioni per farcire un pollo o un maialino con salsicce, ginepro, garum piselli e vino, altre norme su come e cosa stipare negli stomaci vaccini, nelle seppie stufate, perfino nei ghiri al forno.
I sostantivi italiani “farcia” e “ripieno” non sono intercambiabili.
Per correttezza la farcia (o farcitura) è un miscuglio fine e omogeneo di ingredienti spesso “legati” con uovo, farina, pane o formaggio grattugiati; il ripieno è invece un impasto di ingredienti sminuzzati grossolanamente, poco legati e spesso distinguibili a vista.
Preparare e servire in tavola un’oca ripiena, delle braciole napoletane o dei calamari imbottiti significa certamente accrescere il valore nutritivo della carne ma è anche il modo in cui la padrona di casa dimostrare gastronomicamente la stima per i propri ospiti.
Se fin dal medioevo carni ripiene e farcite denotano cura e riguardo per i commensali, il discorso cambia quando i “contenitori” diventano meno nobili come nel caso di ortaggi e i vegetali.
Per secoli i ricettari europei stampati per le classi colte hanno omesso di nominare le verdure ripiene, cibo troppo plebeo e grossolano, in cui confluiva – come nelle zuppe – quel poco che avanzava tra tavola e dispensa, tenuto più o meno insieme da pan bagnato.
Ancora nel ‘700 non si mangiavano né riempivano peperoni, melanzane, carciofi, zucchine, patate e pomidoro, tutte eredità “colombiane” coltivate per due secoli a solo scopo ornamentale; è più probabile che si svuotassero e farcissero cipolle, finocchi, rape o anche grosse cappelle di fungo.
È certa invece l’abitudine di utilizzare le foglie per fasciare ripieni da cuocere in tegame o alla griglia.
In molte regioni italiane lo si fa ancora come in Lombardia (involtini di verza), in Calabria (cicoria ripiena) e in Campania (scarola “imbuttunata”).
Era un sistema ben noto ai cuochi greci e siracusani del IV secolo a.C., come ci racconta il primo critico gastronomico della storia, tale Archestrato di Gela, che nella Sicilia greca di quel periodo invitava gli chef ad avvolgere i tranci del pesce spatola nelle foglie del fico prima di metterli ad arrostire sulle braci.
Non è dunque un caso se oggi in Grecia, Turchia e nei Balcani si preparano i “dolmàdes” e i “sarmàle”, deliziosi involtini di foglie di vite o cavolo ripieni di riso o carne e poi stufati.
Maestri nell’imbottire le melanzane sono i turchi con i loro “imam bayıldı” (=l’imam si è strozzato) e “karnıyarık” (=pancia sventrata) ovvero melanzane tagliate a barchetta e cotte in forno, le prime farcite di pomodoro e cipolla, le seconde con l’aggiunta di macinato di carne bovina.
In tutto l’ex Impero Ottomano le melanzane vengono anche essiccate al sole in forma tubolare e poi riempite di riso o bulgur, pomodoro, spezie ed erbe; si ottengono così i “kuru patlican dolmasi” di cui esistono anche le varianti con peperoni secchi (kuru biber) e pomidoro secchi (kuru domates).
A proposito di pomodoro, come non citare quelli ripieni di riso che furoreggiano soprattutto d’estate a Roma e sulle spiagge del litorale.
Hanno origine nelle umili cucine del ghetto ebraico e sono immancabili su quelle tavole durante la Pesach (Pasqua Ebraica), quando si osserva il divieto di mangiare cibi lievitati e si mette in tavola il pane azzimo.
Si utilizzano pomidoro grossi e sodi, svuotati della polpa che viene frullata, mescolata a riso comune, profumata con aglio e mentuccia romana; vengono cotti in forno su un fondo di patate.
Generalmente, come quasi tutti i ripieni, si mangiano freddi (non da frigo!) il giorno dopo perché i sapori migliorano quando la farcitura è entrata in confidenza con l’involucro.