Fin dalla notte dei tempi gli uccelli acquatici come oche, anatre, gru e cigni sono stati allevati a tutte le latitudini e molti scrittori, pittori e scultori hanno celebrato con opere immortali questo stretto rapporto uomo-animale. L’introduzione dell’alimentazione forzata per ricavare dagli animali carni e grassi preziosi ha sempre oscillato tra il bisogno, l’arte culinaria e… la crudeltà. Anatre e oche hanno sempre rappresentato per i contadini di qualsiasi cultura – ne abbiamo testimonianze nella Mesopotamia di 6000 anni fa – un mezzo di sostentamento a buon mercato e molto utile in caso di carenze alimentari o carestie. Pur non essendo un tessuto adiposo ma una ghiandola, il loro fegato, come quello umano, ha la tendenza ad accumulare più grassi di quanti riesca a smaltirne, fino a sviluppare una patologia nota oggi come “steatosi epatica”. Gli antichi Egizi furono i primi a notare che le anatre che svernavano sulle rive del Nilo, si sovralimentavano prima di ogni migrazione, e scoprirono che quella overdose di amidi, zuccheri e grassi finiva tutta nel loro fegato per essere utilizzata come energia-carburante durante il volo di migliaia di chilometri. Fu così che gli egizi misero a punto sistemi di allevamento delle anatre (ma anche di iene, gru, orici, antilopi) basati sull’alimentazione forzata degli animali; in alcuni bassorilievi di tombe della prima metà del terzo millennio a.C. sono effigiati gruppi di schiavi che ingozzano le anatre servendosi di canne inserite nella gola. Tanto più grasso quanto più apprezzato come cibo, il fegato è sempre stato associato a virtù simboliche: intelligenza, forza, coraggio, valore, ira. In molte culture antiche quello degli animali sacrificati alle divinità veniva “letto” dai sacerdoti per trarre presagi e divinazioni; erano esperti in quest’arte i “baruh” babilonesi, gli “estispici” etruschi e gli “aruspici” romani. Quando Ottaviano conquistò l’Egitto dopo la morte di Cleopatra (30 a.C.) la pratica dell’ingozzamento si diffuse a Roma dove gli schiavi ebrei pare fossero i più ricercati per far ingrassare anatre e oche con cereali e fichi secchi; la loro fama rimase integra per tutto il Medioevo e ben oltre. Nel X secolo compare nella Bisanzio di Costantino VII la “Geoponica”, trattato di agronomia in cui si riassumevano e miglioravano le tecniche per ingrassare oche e anatre. Agli inizi del ‘200 gli autori arabi del “Libro dell’agricoltura”, resero pubblica la loro ricetta per “far grassi i fegati dall’anatra”: pasta di semi di sesamo tostati, datteri e un miscuglio di erbe e piante. Solo nel XIV secolo l’Occidente iniziò a distinguere i fegati delle oche e delle anatre da quelli degli altri volatili. Il medico padovano Michele Savonarola, giudicò “i fegati d’oca più teneri e di sapore migliore di quelli di altri volatili (…), specialmente se sono stati ingrassati con miglio cotto o la sua farina non bluta (setacciata) mescolata con latte”. Cacciati dal regno di Spagna nel 1492, gli ebrei si rifugiarono in Alsazia e in Francia portando con loro quella abilità e il fegato grasso fece la fortuna di molti loro mercanti e allevatori che vendevano a peso d’oro ai ricchi cristiani fegati d’oca e d’anatra burrosi e prelibati, pesanti anche il quintuplo di quelli non sottoposti al “gavage” (ingozzamento). Quanto restava dei pennuti veniva venduto all’interno del ghetto a prezzi abbordabili. Gli ebrei tenevano in gran conto il grasso d’oca poiché la loro legge alimentare (kasherut) vietava il consumo di carni e grassi suini; quindi, lardo e strutto con cui i cristiani friggevano. L’olio d’oliva si usava raramente in cucina sia perché costoso sia perché spesso rancido e maleodorante (l’extravergine è una conquista dell’ultimo dopoguerra ma per tutta l’antichità l’olio d’oliva si usava soprattutto come unguento corporale, talvolta come farmaco e quasi sempre per alimentare lanterne e lucerne). Riguardo al burro, gli ebrei non potevano consumarlo assieme alle carni, allo stesso modo di latte e formaggio. E qui interveniva lo “schmaltz”, cioè il grasso dell’oca, non a caso definito “maiale kosher”. Non è un’esagerazione, poiché il simpatico e goffo pennuto, come il maiale, mangia di tutto, è facile da allevare in spazi ristretti, ha una notevole rapidità di crescita e i suoi prodotti hanno un’elevata conservabilità: una vera e propria dispensa-ambulante di cui non si butta via nulla. Oltre al consumo delle carni e delle interiora, rientra nella tradizione ebraica la frittura nel grasso d’oca (sublimi le patate fritte in questo modo!). In alcune zone del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia si perpetua la tradizione giudaica dell’arrostita o allo spiedo, del lesso di collo ripieno, dei salumi d’oca insaccati nel suo stesso collo, del petto speziato e stagionato, del “prosciuttino” di coscia, dei ciccioli di pelle e dell’oca “in onto” conservata nel suo grasso dentro vasi di terracotta. Inutile precisare che un’infinità di capolavori letterari da Dante a Voltaire sono stati scritti con penne d’oca e le sue piume sono da millenni l’imbottitura più calda e leggera per piumoni e piumini. Che i nostri cugini d’oltralpe, soprattutto quelli del Périgord, dell’Alsazia e della Dordogna, siano considerati maestri nella produzione di foie-gras non può far dimenticare l’inaccettabilità del “gavage”, metodo che consiste nel ficcare in gola a oche e anatre impossibilitate a muoversi, un tubo metallico attraverso il quale si riempie fin quasi a scoppiare il loro stomaco di cibo amidaceo e ipercalorico. Fortunatamente dal 2007 questa orrenda pratica è vietata in Italia come in altri 23 paesi europei, in Gran Bretagna e in Israele. Resta autorizzata in Europa solo in Francia, in Spagna, Belgio, Ungheria e Bulgaria. Inutile cercare del foiegras in India e nella città di New York dove ne è proibita l’importazione, la distribuzione, la vendita e il consumo