C’è tanta storia, ma anche profumi e sapori, contadini e focolari, fatiche e tradizioni in questa carrellata nel mondo dei cereali dove si è immerso Nazzareno Acquistucci, alla guida da anni della Delegazione di Treviso dell’Accademia Italiana della cucina. Anche nello scorso ottobre, in occasione dell’annuale Cena Ecumenica, c’è stato un tema fisso: questa volta un viaggio culturale tra i cereali più noti, grano, farro, orzo, avena, segala, miglio, cibi riconosciuti dalla cucina della tradizione trevigiana. Una successione di ricette dettagliate e riconoscibili come patrimonio di un mangiare antico ma sempre attuale, valorizzato da una produzione agricola che si trasforma in cibo. Oltre ai soliti minestroni la cucina veneta esalta i risotti. Con le trippe, sedano e pomodoro, alla sbirraglia, con la zucca, al latte, le patate, gli spinaci, la luganega, la bisata, il radicchio rosso, i germogli di papavero, e quelli di luppolo, i bruscaldoli. Non mancano due specialità che esaltano la cucina del pesce, il risotto agli scampi e quello con il branzino. Se l’omaggio alimentare al riso è doveroso, lo è certamente anche il mais con l’irresistibile richiamo alla polenta. Il mangiare d’obbligo per le classi meno ambienti per accompagnare mille piatti semplici, gustosi, profumati, allegri. La polenta gialla al Nord con quella pasticciata, con i fagioli, al latte e zucca, condita (burro, formaggio, ricotta…). E poi gli immancabili dolci per ogni occasione: la pinza della Befana, la torta di polenta bianca, i veneziani zaleti, le pannocchie arrostite per la gioia dei ragazzini. E siamo al frumento, antico, prezioso, spesso nobilitato da lunghe e notturne lavorazioni soprattutto manuali per trasformarlo in pane. Quello fatto in casa, quello a impasto diretto (lievitato), quello con la farina di grano duro, con la pasta madre… E per concludere alcune trasformazioni alimentari dei cereali più noti come i bigoli in salsa, tipico spaghetto veneto torchiato, le tagliatelle all’uovo (o senza). L’industria anche quella molitoria più esigente, utilizza il farro e l’orzo per piatti da tempo entrati nell’alimentazione più raffinata come il pane di farro, le sue minestre e i risotti, mentre l’avena, come la segala, il miglio e il sorgo restano i limitati ma apprezzati consumi da forno di élite e a qualche dolce. C. M.

Qui era tutta lasagna
Volti e storie di ristoranti nella Bologna di ieri e di oggi

Un vero e proprio piacere per gli occhi sfogliare questo corposo volume con ampio e affascinante apparato fotografico dedicato ai volti e alle storie di tanti ristoranti e trattorie che hanno fatto la storia della Bologna gastronomica di ieri e di oggi. La nostra attenzione è stata catturata dalla parola “lasagna” che campeggia nel titolo e che costituisce il tema di questo numero di Zafferano magazine. Una parola chiave che ci ha spalancato uno straordinario mondo di saperi e sapori di quella che può essere considerata a pieno merito la capitale della lasagna. Una parola che ci ha raccontato non solo sapori della cucina bolognese tradizionale e innovativa, capaci di solleticare il palato al solo sentirli citare fra le righe di testo, ma anche piccole grandi storie e aneddoti di persone che hanno popolato queste straordinarie cucine, questi ristoranti storici, queste trattorie accoglienti. Parliamo di cuochi e cuoche, di ristoratori, di sommelier, di camerieri, ma anche di avventori, ospiti più o meno illustri che hanno frequentato questi luoghi del buon gusto dal Dopoguerra ad oggi. E, allora, capitolo dopo capitolo, si snodano le vicende gastronomiche cultural sentimentali di una città simbolo dell’accoglienza e del buonumore, soprattutto a tavola.


Già nelle prime pagine di questa lunga storia – raccontata con brio da Mauro Bassini, giornalista del Resto del Carlino e capocronista di Bologna, con il fondamentale supporto dei suggestivi scatti fotografici di Walter Breveglieri – appare il volto pacioso e sorridente della Nerina, storica figura della Bologna gastronomica, che arrivò al successo negli anni 40 con la sua spartana trattoria quasi di fronte alla questura: “Lei appoggiava sul tavolo un piatto di minestra e si piantava lì davanti, seria, seria. Ti guardava di tre quarti, con i pugni sui fianchi, e aspettava un giudizio o un cenno che le facesse capire se quei tortellini o quell’arrosto fossero apprezzati come meritavano. Potevi essere Wanda Osiris, il sindaco o un turnista della Weber, il copione non cambiava…”. E di ospiti illustri la Nerina ne ha avuti tanti, come ad esempio Fausto Coppi e Giovanni Spadolini presente all’inaugurazione del nuovo locale nel 55. Non poteva poi mancare il ricordo della Cesarina, approdata nel 47 nel locale, che presto diverrà vero e proprio luogo di culto, in via Santo Stefano. Acerrima nemica della Nerina, la Cesarina – celebre ostessa bolognese come la definiva lo scrittore Guido Piovene – inventò i tortellini alla panna dando inizio così ad una rivalità senza fine con l’altra “signora dei tortellini” che appassionò gli avventori per molti anni. Di storie sfiziose come questa è ricco il volume che, anno dopo anno, porta alla ribalta sapori e volti noti e meno noti del nostro Bel Paese. Le storie e le immagini dei locali storici, come il Pappagallo e il Diana, ma anche delle taverne, delle trattorie, delle mescite di vino più anguste, e dei loro piatti più tipici si intrecciano con storie e istantanee di protagonisti dello sport, di amori capricciosi tra divi del cinema, di architetture e designers, di musica e comicità. Storie che si arricchiscono di interazioni con nuove culture negli anni più recenti con l’apparire di sempre più numerosi locali etnici che stimolano nuovi confronti non solo gastronomici. Perché Bologna non è solo tortellini, è anche accoglienza. A conclusione di questo excursus favoloso, ben ci sta l’intervento di Massimo Montanari, uno dei maggiori esperti di Storia dell’alimentazione, nonché docente all’Università di Bologna, che focalizza l’attenzione sul presente e il futuro di una ristorazione che è parte integrante della storia di una città ma anche della nostra storia, quella italiana, e non solo a tavola.

Amaro.
Un gusto italiano

L’amaro? Gusto top per gli italiani! Scopriamo perché leggendo questo curioso quanto prezioso volume di poche ma dense pagine scritte da Massimo Montanari, illustre storico della cucina. Partiamo dalla considerazione che “le papille gustative predisposte al riconoscimento dell’amaro prevedono centinaia di recettori per distinguere una molteplicità di sapori diversi mentre poche decine di recettori captano le varietà di dolce. La gestione dell’amaro è più complessa e faticosa…”. Amaro, amaretto, amariccio, amarognolo, amaricante. Il vocabolario italiano è particolarmente ricco di variazioni in tema. Montanari ne studia le motivazioni, ne esplora i confini e le sovrapposizioni sotto il profilo gastronomico ma soprattutto va all’origine delle motivazioni che spingono gli italiani a preferire l’amaro. Dai radicchi ai carciofi, dal caffè ai digestivi. Nessun’altra cucina europea ha una predilezione così marcata per quel sapore. Un tratto distintivo che ha origini lontane e affonda le radici nell’incontro fra cultura contadina e cultura alta… Leggendo questo curioso volumetto si va alla scoperta di un affascinante mondo di dissonanze, consonanze, armonie gustative che sono alla base della migliore cucina e dell’atto del mangiare, un piacere multisensoriale di altissimo livello. Da segnalare il ricchissimo apparato di note bibliografiche che accompagna e completa questa sorta di saggio, costituendo una importante occasione di approfondimento tecnico- professionale che si rivela particolarmente preziosa per gli addetti ai lavori.